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Giuseppe Rolleri - Due reduci

 

 

Die Linien des Lebens sind verschieden,
Wie Wege sind, und wie der Berge Grenzen,
Was hier wir sind, kann dort ein Gott ergänzen
Mit Harmonien und ewigem Lohn und Frieden.
 
(Come le strade e il profilo dei monti,
Diverse son le linee della vita:
Ciò che qui noi siamo, può altrove
Completare un dio, con pace ed armonie
E ricompensa infinita.)
 
                            (HÖLDERLIN, ‘An Zimmer’)
 
 
LA DONNA POSE LA BROCCA sul comodino.
‘La colpa è del fico, disse. Maledetto fico.’
Senza aprire gli occhi l’uomo sospirò:
‘Si, Màrja, si.’
‘ E allora?’
‘Eh?’
‘E allora, ti decidi a tagliarlo?’
‘Si, Màrja, si.?’
‘Lo dici da più di un anno. ’ Il tono di voce della donna si era alzato.
‘ Si, Màrja, va, va.’
Màrja restò ancora un momento sulla porta, poi scese la scala di legno che portava giù nella cucina.
Steso nel lettuccio incavato, tra le lenzuola sudate e sporche, l’uomo si rappresentò il fico. Non era alto, ma così largo che ormai abbracciava tutto il dietro della casa. Il tronco, grigio e tozzo come una zampa di elefante, a due spanne da terra si divideva in tre grossi rami che a loro volta spingevano in tutti i lati altri rami, e altri ancora, formando d’estate tutto uno spazio ricolmo di foglie e punteggiato di frutti. I fichi, prima verdi, prendevano col passare dei giorni più caldi un colore vinoso e alla fine erano turgidi da scoppiare. Nessuno li coglieva. Ma l’uomo amava quella pianta che era cresciuta spontanea in modo prepotente; amava quella luce verde piena di barbagli tra le fronde, e l’odore di pianta di fico che veniva dalle foglie protese. La sentiva vivere senza impedimenti. Anche ora, fermo nel letto troppo caldo, godeva del suo rigoglio e immaginava la frescura della sua ombra. Il fico, pensò, era vicinissimo, proprio dietro la sua testa. Di mezzo c’era il muro di pietra.
‘Màrja ha ragione, dovrei tagliarlo.’ Era vero che il fico era cresciuto in quel modo perché le sue radici, come dita di ferro, avevano scardinato il muro della cisterna e ne bevevano l’acqua. E adesso la cisterna si svenava. ‘Dunque devo tagliarlo,’ pensò ancora una volta.
L’acqua era tutto, su quella sottile striscia di sabbia era l’isola di Veli Srakàne. La casa dell’uomo era al centro della doppia fila di case, una ventina in tutto, che si allungava sul dorso guardando il mare da entrambi i lati. Tranne due più la sua, le case erano abbandonate e si disfacevano per il sole violento dell’estate e per la bora che in altre stagioni calava giù dal Velebit orlato di neve. Era crollato, l’inverno prima, anche il tetto della chiesa che stava all’inizio del borgo verso il pontile. Lì accanto la scuola era ridotta a una scatola sforacchiata. I telai delle grandi finestre pendevano a pezzi, tutto l’intonaco era caduto. Aveva resistito molto meno che non le vecchie case di pietra. Eppure quando era stata inaugurata, qualche anno dopo la guerra, pareva tanto più bella e destinata a durare, tra le bandiere rosse contro l’azzurro e le parole ingigantite dell’altoparlante.
Lì aveva fatto le prime tre classi anche il ragazzo. Dal letto l’uomo guardò alla fotografia poggiata sul canterano. Era cresciuto anche lui con impeto, come trascinato avanti dalla forza degli occhi che erano sempre attentissimi. Aveva mani grandi e delicate. ‘Dovrebbe suonare il violino,’ aveva detto Marian, il maestro, ‘mandatelo a Lussino.’ Nelle vacanze dopo la terza classe era andato a Lussino, ma per morire. Aveva battuto la testa mentre in una grotta sottacqua cercava di staccare una spugna; pareva che non fosse niente, invece una settimana più tardi era stramazzato per terra e all’ospedale aveva durato soltanto cinque giorni, senza più conoscere.
A questo suo unico figlio l’uomo non pensava mai perché l’aveva sempre presente. Non tornava a lui con dei ricordi precisi, ma tutto quello che passava per la sua testa, o diceva, era collegato al ragazzo morto che – ormai da quanti anni? – stava nel cimiterino ad una estremità di Veli Srakàne. E l’uomo non ci andava mai. Forse qualcuno ci aveva messo un piede sopra, c’era cos’ poco spazio, e il terreno aveva ceduto, perché la lastra di marmo s’era spaccata e affossata al centro. ‘Non vai neanche a togliere le erbacce dalla fessura!’ gli diceva Màrja. Ma lui sapeva che, se non faceva questo, faceva altro, e tanto di più. Per esempio la miseria che era venuta dopo e l’emigrazione di tutto il paese per lui avevano a che fare, anche se non lo diceva chiaramente, con quello che era successo al ragazzo.
Era stato il pensiero del fico a fargli voltare la testa verso il canterano e poi aprire gli occhi: e sentì ancora più forte che non voleva tagliarlo…
Questa sensazione si dissolse per delle voci che arrivavano da fuori. Passavano sulla strada ma, non era gente del posto; dei pochi che ancora c’erano, una decina, nessuno parlava così forte e deciso; qualcuno non parlava più per niente, gli altri borbottavano. ‘Veneziani’, si disse l’uomo; e sorrise. Poi sentì una voce maschile che lo chiamava imperiosa: ‘Tihomir! Tihomir! Abita qui Tihomir?’
La porta della cucina si aperse. ‘Chi lo vuole?’, la voce di Màrja era diffidente.
‘Dobbiamo portargli dei saluti…’
‘E’ a letto’, aggiunse la donna come per chiudere.
Di sopra Tihomir si stava già infilando le brache; ma stentava, il tremito del braccio destro era diventato più forte per l’impazienza. Finalmente potè scendere e uscire anche lui nel cortiletto lastricato che era davanti casa. La luce era accecante per i suoi occhi malati e solo facendosi schermo potè vedere le quattro persone schierate oltre il cancello di ferro: un uomo e una donna, un bambino sui dieci anni e una ragazzina un po’ più grande, tutti in costume da bagno, abbronzati e sorridenti. L’uomo era forte e ben proporzionato e solo dai capelli grigi si capiva che era ben sopra i cinquanta; la donna era molto bella e parecchio più giovane; nei ragazzi si vedeva subito la somiglianza. Una famiglia.
‘Cercavo Tihomir.’
‘Sono io.’
Il Veneziano lo guardò insicuro: vedeva davanti a sé un uomo piuttosto basso avvolto in luridi stracci, con in testa una papalina nera bisunta, la barba incolta, un occhio semichiuso e incollato dallo spurgo, l’altro ingrandito dall’occhiale messo di traverso, la bocca molle e sdentata; il braccio destro, scosso da un tremito, reggeva i pantaloni mal fermati da uno spago.
‘le porto i saluti del maestro Marian.’
‘Ah, siete a San Martino di Cherso?’
‘Sì,’ rispose il Veneziano, sempre sorridendo incerto. Poi domandò: ‘È lei il Tihomir della beffa dell’esercito?’
‘Gliel’ha raccontato il maestro? Sì, sono io.’
‘Ma come è stata?’ domandò il Veneziano: ‘Volevano farle fare il servizio volontario…’
‘Sì, il servizio volontario per la ferrovia dell’Istria, che però non era volontariato. Ho detto di no, e mi hanno mandato la milicija.’
Tihomir per un istante si voltò a guardare la Màrja muta sulla porta della cucina. Il suo solo occhio apertosi aguzzò come se cercasse di capire l’intenzione di chi lo questionava su quella vecchia storia. Vide le facce attente e gentili, stese il braccio e aprì il cancelletto.
Nella pausa s’intromise la ragazza: ‘Avreste un bicchiere d’acqua?’
Tihomir pareva non aspettasse altro, fece uno scatto maldestro e gridò: ‘Màrja, dai, porta l’acqua, i bicchieri! Volete una bevanda?’ Intendeva: vino.
La famiglia dei veneziani entrò nel cortiletto; tutto si animava, il ragazzo si accucciò a guardare una vecchia nassa, la giovane donna si affacciò alla cucina nel cui buio era sparita Màrja.
Tihomir adesso voleva parlare. Con la mano libera – perché con l’altra doveva sempre reggersi le brache – fece all’altezza del capo un gesto come di chi giri all’indietro una rosta: ‘Era il ’50, o il ’51, dovevo restare qui perché mia mamma era inferma, non aveva nessuno… Sono figlio unico, perché mio padre, nel ’51, appena sposato, gli austriaci l’avevano mandato in Galizia, e non si era più visto. E poi, anch’io ho fatto sei anni, tra guerra sotto gli italiani e prigionia. Ho cercato di spiegarglielo, ma mi hanno detto che se non mi presentavo a Lussino entro tre giorni mi mandavano sotto processo. Non sono andato, e loro, la milicija, tornano due, tre volte, e non mi trovano perchè il paese mi nascondeva, ora qua, ora là, anche dentro un rame per distillare la grappa; e nessuno sapeva niente, anche il maestro gli rispose che lui era lì per insegnare. Finalmente, un giorno, era dopo Natale, arrivano con tre vedette e tutta la truppa. Ma io gliel’ho fatta. E, le ha detto il maestro, come?’
‘È proprio quello che vorrei sapere,’ rispose il Veneziano. E subito aggiunse: ‘Mi pare perfino impossibile, in pieno inverno nessun può stare in mare per delle ore.’
‘Sì e no,’ disse Tihomir. ‘Io avevo imparato come si fa. Intanto che loro, senza premura perché erano sicuri che stavolta sarei saltato fuori, circondavano tutta l’isola, io prendo la stagna di grasso da motori, me lo metto tutto addosso, senza cavarmi i vestiti, stia bene attento,’ gridò Tihomir, ‘senza cavarmi i vestiti! E con quattro salti ero in acqua, proprio qui vicino – mostrò da quale parte – in un posto che sapevo io; e lì sono restato tenendo fuori dall’acqua solo gli occhi, finché è venuto buio e se ne sono andati, dopo che tante volte mi erano passati per terra e per mare a neanche cinque metri di distanza. Hanno guardato ogni buco, sa? Saranno stati centocinquanta; tutte le case hanno guardato. E sono andati via furibondi.’
‘E poi come è finita?’
‘Come è finita? È finita che loro hanno detto al comando: Tihomir non è a Veli Srakàne, e io gli ho mandato a dire: no, Tihomir, era a Veli Srakàne.’ Adesso l’occhio gli brillava, teneva il mento all’insù, con la bocca serrata.
Il Veneziano rideva. Si avvicinarono anche gli altri e tutti ridevano. Solo Màrja stava in disparte, con la faccia dura. Teneva in mano la brocca bisunta che poco prima era stata sul comodino da notte.
‘Vuole una bevanda?’ domandò di nuovo Tihomir, e si voltò a mezzo, verso Màrja. In cortile, vicino alla porta della cucina, era il telaio arrugginito di una vecchia Singer a pedale. Dove prima stava la macchina da cucire era stesa una tavola e lì sopra il Veneziano vide alcuni bicchieri sporchi e una caraffa con dentro un po’ di vino denso e torbido, di un colore come di miele rossastro. ‘No, grazie. Lo fate voi?’
Cominciarono a parlare di tante cose. Di che vivevano, voleva sapere il Veneziano, e perché la gente era andata via, quando, e dove era andata, se ci veniva mai il medico, quanti erano restati, e d’inverno se avevano da scaldare, e se non davano in affitto quelle case vuote, d’estate; con l’acqua come facevano, e senza luce, e avanti così.
Ma Tihomir voleva sapere se era proprio di Venezia, se c’era ancora quella trattoria in Campo Bandiera e Moro vicino all’Arsenale, dove lui era stato tre mesi, nel ’40, ed erano tempi belli sebbene ci fosse già la guerra e tutto oscurato. Fumava la Africa, giocava a tressette in quell’osteria, la gente era buona anche se gli dicevano: ‘Ciò, s-ciavòn, ti vol zugar? Ti-co’-mir o mi-co’-tir? Dai marinèr, gnente paura, se pasa la ronda i ne avisa.’
Stavano ritti in mezzo al minuscolo cortile, nel sole meridiano che cominciava a declinare. Il Veneziano aveva finito per accettare due dita di quel vino, tenevano il bicchiere in mano come se da un momento all’altro dovessero mettersi a cantare un brindisi. Tihomir era felice, esaltato, si rimetteva continuamente a posto la papalina. L’altro era pieno di allegro interesse, nella sanità del corpo toccato dal sole, della pelle bruna damascata di sale marino.
Ma capiva anche, dal disperato senso di liberazione che leggeva nello sguardo di Tihomir, cosa doveva essere lì la vita. Nessuno aveva più voglia neanche di tenere una capra, di sarchiare una vite. La malora e l’inerzia stringevano d’assedio quella dozzina di vecchi isolani come i rovi si mangiano un campo abbandonato. L’uomo divenne ancora più curioso, perché sentiva che in Tihomir viveva un barlume. In un primo momento egli era rimasto interdetto: l’eroe del racconto del maestro se l’era immaginato diverso, non quel rottame tremante che era comparso sulla porta della bicocca. Ma ora lo spirito di quell’impresa, la protervia, il buon diritto al di là delle leggi, anche l’arguzia, li vedeva brillare nell’occhio ingigantito dalla lente.
‘Ma non mi ha ancora detto come è andata a finire, da ultimo.’
‘Da ultimo?’ replicò Tihomir, ‘Beh, era inverno, venne molta bora e freddo, per settimane restammo isolati, poi a febbraio mi morì la vecchia. Loro non si fecero più vivi. Due mesi dopo mi presentai a Lussimpiccolo. Il tenente mi disse che ero da fucilazione, masi vedeva che gli scappava da ridere. Ormai tutti sapevano la mia storia. Mi disse che la famiglia di mia madre veniva da Mali Srakàne. Mi mandò per due mesi a Pola Altura; poi a casa.’
Il Veneziano, ilare, approvò con il capo ala saggezza del tenente. Poi tornò alla carica: ‘Un’altra cosa: chi le ha insegnato del grasso sui vestisti?’
Tihmir strinse la bocca e divenne serio. Bevve l’ultimo sorso di vino e andò a posare il bicchiere sulla Singer. ‘Quella è una storia molto più brutta,’ disse. ‘L’ho imparato in guerra.’ E tacque.
Ma il silenzio del veneziano lo invitava a raccontare. ‘Come tanti altri di queste isole, ero imbarcato sull’incrociatore Zara, e nel marzo del ’41…’, ma non potè finire perché il Veneziano cacciò un urlo: ‘Giovanna! Giovanna!,’ la donna sbucò di corsa da dietro la casa, ‘Giovanna, Tihomir era sullo Zara! Allora eri anche tu a Capo Matapan? Eh? Vero, Tihomir?’
L’aveva preso per entrambe le mani e pareva che stesse per abbracciarlo: ‘Io ero guardiamarina sulla Vittorio Veneto…’
‘A quelli è andata meglio,’ disse Tihomir come resistendo, ‘erano con l’ammiraglio. Ma noi…’ e storse la bocca. ‘Verso mezzanotte, era il 28 di marzo, hanno dato l’ordine di abbandonare la nave. C’erano morti e fuoco dappertutto e lo Zara doveva essere affondato. Tanti piangevano, si segnavano, tiravano fuori le fotografie; un armiere tratteneva per la manica un ufficiale gridando: ‘Signor tenente cosa devo fare? Io non so nuotare’. Per fortuna ero amico di un aiuto-macchinista di Fiume, è stato lui a darmi il grasso e a dirmi che coi vestiti addosso era molto meglio. Alle sette della mattina sono passati due apparecchi inglesi. In mare c’era un morto ogni cinquanta metri, tanti avevano ancora l’elmetto in testa. Dopo un’ora è arrivato un caccia e ha messo giù le scialuppe. Andavano dall’uno all’altro, guardavano un momento negli occhi, poi toglievano il giubbotto per affondarli. Di vivi ci hanno ripescato in pochi. Zdenko, l’amico che mi aveva dato il grasso, non c’era.’
Tihomir adesso si sforzava di ridere, apriva la bocca sdentata, faceva dei versi con le spalle che pareva volesse dire: è andata così.
L’altro si era seduto sulla sponda del muretto da cui si alzava la rete metallica, a lato del cancello, disse a sua moglie: era stato il suo primo incontro con la guerra, e aveva avuto paura quando aveva sentito il siluro colpire la nave come un enorme pugno, mentre l’aereo che l’aveva lanciato precipitava in mare. Il comandante aveva avuto ragione di puntare su Taranto, con la nave ridotta in quel modo, ma perché aveva mandato indietro tutta la divisione Zara, invece di dare per perso il Pola? Quante migliaia di ragazzi come lui, che allora aveva ventitrè anni, erano morti assiderati quella notte? O erano impazziti di sete e freddo sulle zattere abbandonate a se stesse. Anche lui doveva essere imbarcato su un caccia di quella divisione, l’Alfieri, che gli inglesi avevano mandato a picco in tre minuti e non si era salvato nessuno. Invece all’ultimo momento l’avevano destinato alla Vittorio Veneto. Per la prima volta quella parola, che spesso aveva usato raccontando di allora, gli apparve piena di senso: destinato.
Erano passati quasi quarant’anni; era finita la guerra, erano venuti gli anni dell’università, la laurea in ingegneria, la carriera, i soldi, la vita libera e brillante di scapolo, poi quel matrimonio felice, i figli. Quanti che avrebbero potuto vivere come lui o addirittura meglio di lui erano finiti in mare a Capo Matapan? Ma anche, si poteva domandare, quanti tra quelli che si erano salvati avevano avuto un avita degna di essere vissuta? Tutto fu una riflessione intensa ma rapida; aveva un’istintiva diffidenza a smarrirsi in fantasie sulle cose ultime. Rialzando gli occhi vide che Tihomir era ancora lì con quella espressione incerta: forse non voleva fargli sentire, a lui come italiano, il peso di un’accusa. ‘E poi?’ domandò di nuovo.
‘Poi’ rispose Tihomir ‘mi portarono in India.’ Disse alcune frasi in inglese, erano tutte frasi che si riferivano alla vita del campo. ‘Sono stato anche sotto gli inglesi,’ disse con allegria. Si vedeva che non aveva più nessuna voglia di parlare di cose tristi e passate, come se non volesse guastare qualcosa di raro che gli stava capitando.
Da dietro la casa sbucarono i figlioli, il più piccolo andò da suo padre e gli disse qualcosa nell’orecchio. ‘Sì’ rispose, ‘adesso lo domandiamo a Tihomir. Vero, Tihomir, i ragazzi possono prendere un paio di fichi?’
Di nuovo parve che l’uomo non avesse aspettato altro. Cominciò a fare strani movimenti, il cui scopo era quello di dirigersi verso il luogo da dove erano venuti i ragazzi, e intanto gridava: ‘Fin che volete, muli!’
Il Veneziano notò che Tihomir strascinava faticosamente una gamba, e l’altra si muoveva con uno scatto che sbilanciava tutta la sua piccola e rattrappita figura, per cui doveva recuperare l’equilibrio remigando nell’aria col braccio sinistro.
Andarono tutti dietro. Il fico era superbo. Il sole, già in calare, sgrondava dorato sulle foglie aperte come mani per prenderlo.
Dentro tra i rami era tutto un barlumio e un moto leggero, perché quel lato della casa era meno chiuso e dal mare imminente veniva già un po’ di brezza serale. I ragazzi allungavano le braccia nude tra il fogliame per arrivare ai frutti violacei che sotto avevano una lacrima come resina. I più maturi erano in alto, ma Tihomir non volle che salissero: ‘Il fico si spezza,’ disse; ma intanto aveva preso un paletto che era poggiato al muro e lo mostrò: terminava con un calice di latta zincata dai bordi merlati. Spiegò come bisognava fare, prendendo il fico da sotto e poi girando il paletto finchè il frutto si staccava. ‘Se non si stacca non è maturo.’ I ragazzi si divertivano un mondo e quasi litigarono perché il maschio non voleva cedere l’attrezzo e far provare anche la sorella.
Mangiavano voracemente quei fichi spartendoli a mezzo con le dita e cercando con le labbra e i denti di sgusciare intera la polpa granulosa e dolcissima. Tihomir era tutto eccitato e felice, si piegava come un manichino ora di qua ora di là e segnava, gridando ‘Là! Là!’, i frutti nascosti dietro le foglie.
Anche i genitori ne mangiarono, ma ebbero scrupolo: ‘Basta,’ dissero, ‘voi spogliate l’albero?, ma Tihomir non si dava per inteso e tornarono tutti in cortile con le mani colme di frutti gocciolando il loro zucchero.
Entrarono nella cucina, che il primo momento parve completamente buia. Venne fuori un sacchetto di plastica in cui tutti deposero i fichi delicatamente come se fossero uova. ‘Ve li portate a casa’, disse Tihomir, e, mentre i ragazzi tornavano fuori, fece sedere gli ospiti e lui stesso si lasciò andare su una seggiola.
Màrja gli sollevò un gamba e passò sotto uno sgabello, borbottando qualcosa in croato. ‘Ha ragione’, disse Tihomir, ‘sono stato troppo in piedi, ho un’ulcera che non si chiude mai’, e tirando su il calzone fece vedere una lurida fasciatura; ‘ho troppo zucchero nel sangue, ma qui non c’è nessuno che sappia fare le punture e le pastiglie contano poco, mi ha detto il dottore. E anche gli occhi…Uno l’ho già perso e l’altro…Ma il peggio è la notte. La gamba mi fa male solo di notte e non sono capace di dormire. Dormo poco’.
I due sposi, seduti seminudi sulle seggiole impagliate, nel fresco della cucina che quasi li faceva rabbrividire, tacquero. Non sapevano cosa dire. Ma Tihomir era di buon umore e parlò di altro. Volle sapere un sacco di cose, dei ragazzi, se andavano a scuola, se studiavano musica, e di lui, cosa faceva di mestiere, eccetera. Di ogni cosa buona si rallegrava come se gli avessero detto che il giorno dopo sarebbe stata sua. Invece, mano a mano che gli occhi si abituavano al buio, i due italiano si rendevano conto dell’abbandono che regnava intorno. C’erano posate e piatti sporchi nel lavello di pietra, ma Màrja – come seppero – non cucinava quasi mai. ‘Siamo noi due soli,’ disse Tihomir. Ogni mese, mese e mezzo, da New York arrivava una lettera del fratello di lei con dentro cinquanta dollari, cos’ Lussimpiccolo si facevano comprare il latte a lunga conservazione, le scatolette di sgombri, il pane confezionato, qualche mezza dozzina di uova nell’impacco di plastica. L’orto lui non poteva più farlo. Un vicino produceva ancora qualche fiasco di quel vino, ma era acido e bruciava lo stomaco. ‘Sì’, rispose poi anche Tihomir, ‘pesce cene sarebbe e tanto; ma qui nessuno pesca più, sono vecchi o non hanno voglia.’
I due uomini parlarono ancora un pezzo; infiammandosi, ogni tanto. Giovanna ascoltava. Màrja aveva una faccia assente. Finalmente uscirono nel tepido cortile, sulle pietre che riscaldavano i piedi nudi un po’ intirizziti. Furono chiamati i ragazzi, che erano andati fino alla riva per indovinare in che punto quella volta Tihomir si era nascosto. Si salutarono, e poi la famiglia presa per la strada.
C’era stato l’imbarazzo di non potersi dire che i saluti. Ma Tihomir lo capì e uscito dal cancello gridò ancora: ‘E se chiamano di nuovo le nostre classi, speriamo che ci imbarchino insieme!’
Stette a guardare la famiglia che si allontanava verso il piccolo molo sfondato, tra le due file di case abbandonate. Poi rientrò in cortile e pregò Màrja di portargli fuori sedia e sgabello.
Sedette contro il muro di casa, e poco dopo sentì in lontananza il motore della barca. Dal lato opposto, sopra il mare aperto, il sole andava calando; ma non si vedeva, perché un sipario di pallide canne verdi delimitava il cortile da quel lato. Tihomir seguiva il tramonto dal rafforzarsi della brezza. In alto, nel cielo azzurro cenere, era sospesa la luna al secondo quarto, bianca e fresca come una mandorla sbucciata. A differenza della vista, l’udito di Tihomir era ancora buono; ed egli l’aguzzò ad occhi socchiusi, per tener dietro alla barca che puntava su Cherso. Il rumore era sempre più fievole; il vento di mare lo buttava verso terra; finchè esso divenne un ronzio intermittente, e poi Tihomir non seppe più se lo udiva ancora o era solo un’eco dentro il suo orecchio.
Ma la mente continuava a tenere il contatto: divagando e perdendosi, ma poi sempre richiamando la prima immagine, quando aveva scorto dietro il cancello quelle quattro figure sorridenti. E risentiva le voci, l’aria subito smossa dall’irrompere attorno a lui di quei corpi liberi di muoversi; rivedeva le bocche rosse dei ragazzi, avide di frutta sulla faccia bruna. ‘Il maschio studia anche il violino’, si disse Tihomir a mezza voce; e restò a lungo su questo pensiero.
Poi, sbocciando da sensi diventati inconsueti, si destò il piacere sereno di ricordare la donna: non questo o quell’aspetto di lei, ma la complessiva presenza del suo sesso vivo e calmante. ‘Un uomo felice,’ borbottò Tihomir, con un sorriso mite, beato, ‘e abbiamo quasi la stessa età.’
Non avrebbe saputo dire quanto a lungo rimase lì seduto, con la sua gamba poggiata sullo sgabello. Quando da dentro Màrja gli chiese se voleva mangiare qualcosa, Tihomir finalmente si scosse: ‘No,’ disse, ‘mangia pure, tu.’ Voleva stare immobile per trattenere quella felicità inspiegabile che l’aveva invaso. Pareva che intorno le cose ne fossero anch’esse toccate. La sera d’agosto distillava una luce sempre più limpida, di cui si dissetavano le cose dopo la calura pomeridiana. Le rigide foglie delle canne fremevano strette attorno alle loro aste leggermente piegate dalla brezza. Perfino il misero geranio, che Màrja non bagnava quasi mai e languiva a piè del muro, aveva messo fuori un rosa del tutto nuovo. Da un lato, sul selciato, era abbandonato un paio di zoccoli: Tihomir ammirò la loro forma, e il modo perfetto come erano disposti, l’uno rovesciato sopra l’altro. Il cancello, con le sue semplici volute in fero, gli parve bellissimo. E anche tutti gli altri volumi intorno, specialmente le vecchie case in fila con la sua, coi loro camini e i loro spigoli, sembravano rispondere a un’armonia che più grande non avrebbe potuto essere. Alzando il suo occhio egro, l’uomo ammirò la luna: si era accesa dall’interno di un chiarore azzurrino che cominciava a vincere quello del cielo. L’ora progrediva, senza che nulla la turbasse, verso una notte che si annunciava serena. Mai il trascorrere del tempo era apparso a Tihomir una cosa tanto ben regolata; e infatti continuò a restare in moto e incantato sulla sua sedia mentre tutto s’incupiva di azzurro. Sentì sfregare un fiammifero e dalla finestrella della cucina venne un barlume. Màrja disse: ‘Vado a dormire,’ ‘Buonanotte,’ rispose Tihomir, e non seppe dire altro.
Quando finalmente anch’egli rilevò, tutto era immerso in un blu argenteo che lasciava apparire anche alcune stelle, perché la luna era solo mezza. Era la sua ora, ma Tihomir non aveva affatto sonno, e – sebbene non avesse cenato – non aveva neppure fame né sete. Ugualmente entrò in casa, tirò il paletto, trovò a tastoni la pila da appendere al collo, poi, preso il grande bicchiere d’acqua che la donna gli aveva lasciato sul tavolo, salì la scala.
Si mise aletto e volse la testa verso il riquadro celeste che segnava nel muro la piccola finestra aperta. Da lì entrava l’alito della notte estiva il suo umidore, benefico nella stanza ancora calda di aria diurna. Màrja respirava lentamente nel sonno. Tihomir capì che sarebbe rimasto sveglio a lungo; la gamba non gli doleva, ma la sua mente era riposata e attiva come se avesse già dormito. Decise di non prendere subito la pastiglia, per godere di quell’indistinto benessere che provava. Tornarono le immagini del giorno. Ma ora Tihomir volle anche ragionare. Cercava una spiegazione e durante un tempo indefinito lasciò oscillare la sua mene tra le sensazioni provate e un fondo oscuro che riguardava soltanto lui e da cui cercava di salire un’eco, una qualche risposta. Finchè una risposta venne, e Tihomir si stupì che fosse un’idea così semplice, qualcosa che in fondo aveva sempre saputo, anche se non l’aveva mai pensato. Era un’idea che forse aveva determinato per certi aspetti tutto il suo comportamento nella vita: l’importante – pensò Tihomir – era che la felicità nel modo ci fosse, e non l’averla, in proprio, come soltanto sua. Che importanza aveva il fatto che fosse toccato al Veneziano, e non a lui, di avere tutto dalla vita, quei due figlioli sani da mandare avanti, quella moglie tenera da abbracciare in una notte d’estate, come forse stava facendo in quel momento, e tutto il resto? Lui, Tihomir, aveva sentito, oggi, non meno di loro, forse più di loro, che la felicità veramente esiste, che, intera, la vita è buona. Colpito da questa idea si rizzò sul letto. ‘La felicità,’ si disse ‘la si ha anche in quanto la si capisce.’
Ce n’era, in giro per il mondo. Dopo la prigionia, Tihomir per alcuni anni aveva navigato. Era stato dappertutto ma aveva visto poco: le navi stavano nei porti il tempo necessario per caricare e scaricare, qualche volta non aveva neppure messo piede a terra. Adesso tutti quei luoghi gli tornavano alla mente come un luogo solo. Magari esso prendeva la forma che si era impressa nel suo ricordo la sera in cui dalla Punta del Cerro aveva visto sotto di sé tutta la baia e le luci di Montevideo, o da Punta Malabar il Back Bay e i quartieri vecchi di Bombay. Ma era il mondo, e dentro c’era quello che lui aveva sentito quel pomeriggio e ora cercava di trattenere come un morente cerca di trattenere l’anima.
Da quel pensiero del mondo grandissimo che esisteva senza di lui, pieno di gente e di fatti infiniti, Tihomir tornò al pensiero del suo fico. Si lasciò ricadere sul cuscino. ‘No,’ disse ancora, ‘non lo taglierò, il fico. In una cisterna di sessanta metri cubi, la più grande di Veli Srakàne, c’è acqua per noi e anche per lui, e per quanto poi? Ci fosse almeno qualcuno che può averne bisogno, anche dopo…’ Nel giro di pochi anni l’isola sarebbe diventata come Mali, la sorella più piccola, dove ormai vivevano solo i gabbiani.
Il riquadro della finestra si era fatto più oscuro, la luna era tramontata e doveva essere passata la mezzanotte, forse anche il tocco. Tihomir desiderò dormire. Voleva portare nel sonno e forse in un sogno quel segreto elementare che continuava a tenerlo desto e dava a tutti i suoi pensieri un’evidenza straordinaria. Esso gli spiegava molte cose della sua vita passata. Un avita così triste, ma ora egli la guardava come un padre guarda il figlio disgraziato e lo trova il più bello del mondo. E sempre, in fondo, aveva sentito a quel modo. Solo che non l’aveva saputo. Adesso che lo sapeva…Tihomir fu colpito da un nuovo pensiero, il timore che d’ora in avanti forse ne avrebbe avuto l’idea ma non più il sentimento.
Stese il braccio malfermo verso il comodino e accese la pila che vi era poggiata. Sul ripiano, attorno al bicchiere d’acqua, c’era un gran numero di flaconi e di tubetti, tutto quello che il dottore gli aveva dato per il diabete e il mal di cuore. C’era anche il sonnifero e Tihomir aprì la boccetta piena di compresse bianche. Ne fece cadere una sul palmo della mano, ma al momento di portarla alla bocca si fermò. Lentamente tornò a coricarsi. La pila poggiata sul comodino, con il suo debole fascio di luce, prendeva in pieno il bicchiere, proiettando sul muro di fronte un disegno fantastico. Tihomir si concentrò su quell’immagine. Cosa gli aveva risposto il dottore quella volta che gli aveva consegnato la boccetta? ‘Vuoi sapere cosa succede se le prendi tutte in una volta? Succede, mio caro, che non ti svegli più.’ Quella frase a cui non aveva badato gli tornava alla mente e lo affascinava come l’intrigo geometrico di riflessi sulla parete. Aveva dato mano alla boccetta perché voleva prolungare in un sonno tranquillo il senso di beatitudine che l’aveva colmato in quella sera d’estate, dandogli l’impressione di avere trovato una risposta al perché assillante della sua vita; perché aveva dovuto soffrire, perché tutto gli era stato negato. Capiva finalmente che era una domanda senza senso, o meglio: essa si dissolveva in una domanda più grande e questa portava a una conclusione felice.
Ebbe nitida vista di stagioni future, lontane nel tempo, piene di una luce solare impensata, e di gente che niente avrebbe saputo di Tihomir. La sua mente cominciò a produrre visioni a fiotti, come quando, poco prima, aveva sentito il getto della memoria produrre immagini di città intraviste in anni lontani e poi dimenticate. Era come il pulsare di un cuore che immette nuova forza ai sensi, per cui ad ogni battito il quadro diventava un altro, del tutto casuale ma sempre più dettagliato e preciso, volti di sconosciuti, l’India, le montagne, le nuvole; poi, vicinissime, due mani a conca piene di acqua da bere, una rete piena di salmoni d’argento che una volta aveva visto tirare su vicino a Anchorage; e poi di nuovo, come un sogno, facce sorridenti che gli parlavano…
Tihomir aveva chiuso gli occhi e beveva quelle immagini prodigiose che gli facevano perdere la percezione del suo corpo. Ma finalmente si scosse come se qualcuno avesse detto il suo nome. Allungò il braccio e, presa la boccetta, ne versò tutto il contenuto nell’incavo del petto, dove lo sterno s’infossava, poi spense la luce e trovò al buio il bicchiere. Sollevando solo di poco la testa dal cuscino cominciò a trangugiare una compressa dopo l’altra. Quando ebbe finito, tese l’orecchio al respiro di Màrja. No, non era una colpa lasciarla sola; e in ogni caso, malato com’era, faceva poca differenza. Non si erano mai veramente amati; si erano solo compiaciuti. Lei odiava quella casa, quell’isola dove aveva passato tutta la vita. Ora finalmente sarebbe andata nella casa di ricovero di Cherso. E lì sarebbe stata più contenta.
 

 

 

da Giuseppe Rolleri


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