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Claudio Magris - Piccolo mito autentico di un'isoletta del Quarnero. Quel Paolo di Canidole che sfidò un esercito

 
In un racconto di Kipling, i protagonisti si ricordano improvvisamente, quando la miseria dell’esistenza li opprime col suo peso o quando su di loro incombe ormai la morte, di essere stati, una volta, Dèi. Eravamo tutti Dèi, pensano queste creature aggiogate o abbattute, ma ce ne siamo dimenticati. Nei momenti di caduta, di avvilimento fisico o morale, ci balena talvolta, fulminea e dolorosa, un’analoga rivelazione: un amore che s’involgarisce e si spegne, un’amicizia che s’intorbida nell’indifferenza o nel malinteso, una viltà dell’animo o una stanchezza del corpo che declina e si guasta tolgono afa e significato alla nostra vita; in quell’afa della nostra persona ci sembra di ricordare che tuttavia anche noi, una volta, siamo stati Dèi, che c’è stata un’ora della nostra esistenza in cui abbiamo vissuto – o creduto di vivere – come gli eroi di Omero, in un’intoccabile saldezza e in un’inalterabile promessa di felicità, come Ettore sul suo carro o Nausicaa sulla riva del mare.
 
Sulle isole
 
Forse ogni uomo è stato un re ed è una colpa il torpido oblìo che ci impedisce di vedere nel mendicante la maestà del re spodestato e di riconoscere, nei nostri stessi frusti lineamenti, la traccia di quella regalità che potrebbe ancora illuminarli se non l’avessimo così a lungo dimenticata, permettendo che gli affanni, le rughe e la serietà della vita la coprissero fino a renderla quasi irriconoscibile. Chi ha avuto il proprio giorno, come dice re Lear, ha sentito, almeno una volta, la grandezza e il significato della sua esistenza, con la stessa umile e riconoscente oggettività con la quale si guarda la distesa di un paese o si avverte il respiro di un vento.
Anche Paolo di Canidole ha avuto il suo giorno e al memoria di quest’ultimo è custodita, fra la gente delle isole, nei racconti che tramandano la sua piccola storia ripetendo sempre le stesse frasi e le stesse parole, come le formule e gli epiteti stereotipi della letteratura orale. Canidole – in croato, Vele Srakane – è un isolotto del Quarnero, pochissimi chilometri a ovest di Lussino, coperto di canne e sempre più deserto. Trent’anni fa c’erano ancora circa 150 persone, ora ve ne sono solo dodici, quasi tutti vecchi; d’estate vi ritorna per un paio di settimane, a trovare parenti, qualcuno emigrato sul continente o in America e vi approda, per un paio d’ore, qualche barca di villeggianti.
Le altre isole, intorno a Canidole, sono deserte o realmente popolate, vivono l’immemorabile vita del mare, delle risacche e delle maree, o la stagione delle vacanze, degli alberghi e dei caffè aperti da maggio a settembre. Sulle altre isole non vive nessuno oppure vive, per alcuni mesi o per tutto l’anno, gente inserita, come tutti, nella concatenazione e nella prosa del mondo. Canidole è rimasta fuori, vive la sua vita antica e immutata, che va spegnendosi. Non vi sono alberghi, bar, villeggianti, la scuola costruita qualche decennio fa è in rovina; solo molte canne, qualche fico, qualche pecora e qualche vite che basta appena per i dodici abitanti, i quali d’inverno, quando sul Quarnero la bora è forte, restano tagliati fuori da Lussino, l’isola madre e capitale, per due o tre settimane, ad attendere il sereno e il pane fresco.
La breve distanza che li separa da Lussino è tanto più grande delle centinaia o migliaia di chilometri che corrono fra Lussino e Monaco o New York, perché quella breve distanza implica – come in una variante dello spazio-tempo einsteiniano – una lontananza di decenni, che presto sarà cancellata dell’estinzione totale dei suoi abitanti, che ha già reso deserto l’isolotto vicino, Canidole Piccola. La morte farà di Canidole un’isola come le altre, meravigliosa per l’indicibile colore del mare, méta di poche ore soltanto per turisti, e inserita, grazie alla morte, nell’organizzazione del mondo e dell’estate.
Un loquace e sentenzioso barcaiolo ci aveva raccontato, portandoci ad altre spiagge, la breve storia di Paolo. Agli inizi degli anni Cinquanta, la Repubblica Federale di Jugoslavia, da poco signora di quelle isole, lo aveva richiamato per il servizio militare. Paolo considerava già un sopruso i quattro anni passati al fronte – nonostante fosse l’unico sostegno della madre vedova – per l’opinabile gloria del Duce e dell’Impero, grazie alle cui iniziative la sua isola aveva cambiato bandiera. Si era rifiutato di presentarsi alle autorità militari jugoslave ed era rimasto a casa, ad assistere la vecchia madre. La polizia, venuta a prenderlo, non lo aveva trovato, perché si era nascosto; era sbarcato allora un reparto dell’esercito, che aveva setacciato a ventaglio e invano un isolotto di 1,2 Kmq, mentre Paolo, nascosto – in dicembre – in mare, fra gli scogli, tenendo fuori dall’acqua solo gli occhi, aveva osservato le infruttuose ricerche.
Il paese aveva assistito muto alla caccia, con l’istintiva ostilità della selvaggina verso i cacciatori; il maestro elementare, interrogato, aveva replicato che lui, se faceva il maestro, non poteva fare anche il poliziotto e tale risposta viene ancora citata, fra le isole, con precisione filologica. Il comandante del reparto, rientrato alla base, aveva comunicato che Paolo non si trovava a Canidole, ma Paolo di Canidole aveva mandato a dire che lui, sull’isola, c’era. Più tardi – ma qui i racconti si facevano confusi – l’autorità militare jugoslava, dimostrando un’intelligenza benevola che raramente si associa al potere, era venuta – tramite i buoni uffici di un comprensivo tenente – a un onorevole compromesso col suo antagonista, che aveva accondisceso a un breve periodo di richiamo.
Paolo aveva tenuto in iscacco la polizia e l’esercito, un esercito che aveva vinto i tedeschi e conquistato la Venezia Giulia. Quando, alcuni giorni dopo, un’altra barca ci portò a Canidole, l’idea di cercarlo venne a Beppino Bevilacqua, saggista di grande classicità e gastronomo puntiglioso, ma soprattutto grande narratore orale, un “Tusitala” (raccontatore di storie) di Oderzo, come Stevenson era, nel linguaggio dei polinesiani, un Tusitala dei mari del Sud. Non indossavamo divise e non ci era quindi difficile, fra poche case e dodici persone, trovare Paolo. Era vecchio, molto più invecchiato della sua età, con la barba incolta e il corpo oscillante per un continuo tremito; dietro gli occhi c’era un occhio solo e lui si puliva, con un gesto continuo e incerto, uno spurgo nella cavità dell’occhio mancante. Era gentile, compiaciuto e indifferente. Ripeteva la sua storia con le stesse parole del barcaiolo, compresa la famosa dichiarazione del maestro, come se anch’egli l’avesse appresa da lui e imparata a memoria.
Eravamo avvolti nell’aura di quelle lontananze struggenti, di quel mare incorruttibile dinanzi al quale si poteva credere di essere ancora Dèi, di essere immortali. Quel mare e quelle isole erano un incanto perfetto, così intenso da essere quasi insostenibile, perché non siamo Dèi e non possiamo reggere più di un istante al confronto con l’assoluto. Pensavo al “Viaggio in paradiso” di Musil, nel quale i due amanti vivono, in riva al mare, un momento totale, ma non reggono all’intensità di quell’incanto e hanno bisogno di tornare alla banalità, alla futilità, alla volgarità dell’imperfezione. Intanto l’eroe di Canidole, scosso dal suo tremito, raccontava di come avesse perduto fra le canne l’occhio di vetro e di come anche la vista dell’altro andasse cedendo. Quando gli chiedemmo se avesse il diabete, Paolo rispose in tono incoraggiante, compiaciuto per l’acutezza diagnostica: Sì, ecco, bravi, bravi, proprio diabete, giusto, bravi. E riprese a parlare del fico, le cui radici avevano danneggiato la cisterna, e che avrebbe dovuto tagliare. L’eroe di Canidole attendeva, opaco, la morte e, prima, la probabile cecità, perché non c’era nessuno, sull’isola, che potesse fargli le necessarie iniezioni di insulina. Un’anonima eutanasia, lenta e sicura, stava provvedendo all’ex-eroe, ormai inutile a qualsiasi società. Guardando quel vecchio, che aveva sfidato un esercito e non riusciva più a radersi, si capiva che è invitabile dimenticarsi di essere stati Dèi.
Ma nel suo torpido abbandono alla distruzione c’era qualcosa di regale, la tranquillità. Sul viso intimidito della moglie, che ci teneva a distanza e offriva quasi con timore una brocca d’acqua frasca, si leggeva invece soltanto un’antica sottomissione al basto e alle percosse della vita, una gentilezza spezzata, la spenta rassegnazione di chi non ha avuto il suo giorno, di chi non ha avuto niente. Quel volto, che confutava ogni stolta nostalgìa del tempo antico e dell’idillio patriarcale, spezzava l’armonìa di quel mare e di quel cielo perfetto; l’attimo di pianto che salì agli occhi di chi mi stava vicino era come la lacrima di Achab, il capitano di “Moby Dick”, che scivola nel Pacifico e di cui Melville dice che essa vale più di tutte le ricchezze del fondo dell’oceano.
 
In America
 
La donna raccontava di un figlio morto da bambino; aggiunse solo, con un piccolo orgoglio, di avere fratelli e sorelle in America, che ogni tanto le mandavano dei dollari. Aveva l’aria di chi chiede scusa di esistere, ma si rinfrancava un po’ ascoltando Beppino, che si rivolgeva loro con un affettuoso e rispettoso riguardo, per il quale, nel giorno del giudizio, molto gli sarà perdonato. Appassiva accanto al suo uomo, all’eroe abbattuto e fragile, ma placido come un tronco corroso, ancora maestoso nel suo pacifico dissolversi. Ma forse la corona più vera posava, nascosta, sul capo della donna senza nome e senza storia, perché il peso che lei aveva portato era più duro della caccia di un esercito e la gentilezza che il suo volto aveva saputo conservare era una regalità ancora più alta di quella di Paolo, l’eroe di Canidole.
 

 

da Claudio Magris-Giuseppe Bevilacqua, Itinerari dell'Adriatico, Bari: Palomar, 2007


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