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Le due rive : Reportages adriatici in prosa e in versi / Biagio Marin ; a cura di Marco Giovanetti - Reggio Emilia : Diabasis , 2007 - 168 p. - recensione a cura di Marco Prinari.


«In tutta la poesia dialettale ed italiana, nessun altro ha toccato il mare come Biagio Marin», così si esprimeva Claudio Marabini nel 1991 in occasione del centenario dalla nascita del poeta gradese e, leggendo le pagine di questo libro, pregevolmente curato da Marco Giovanetti, si capisce quanto questa affermazione non sia un’iperbole peregrina dettata dalla circostanza commemorativa, bensì un solido pilastro da cui partire alla scoperta di uno dei grandi autori italiani della contemporaneità. In questo volume sono stati selezionati alcuni degli scritti lirici e in prosa composti dal Marin tra gli anni Quaranta e Sessanta che hanno come comune denominatore il viaggio attraverso l’Adriatico tra la laguna di Grado, il golfo di Trieste e l’Istria, vera protagonista di questi reportage, scoperta sin dalla fanciullezza quando il poeta viaggiava insieme al padre che vi si recava per lavoro a rifornirsi di vino, solcando il mare su di un trabaccolo, imbarcazione senza motore che faceva apparire il viaggio “ulissico” (per usare un’espressione dello stesso autore). Fu proprio in Istria, e precisamente sull’isola di Lussino, che Marin fece propria la vera essenza dell’Odissea omerica, esplorando un paesaggio che ai suoi occhi rappresentava il mondo dell’epica classica, un mondo fatto di rocce emerse da acque cristalline, modellate dalle brezze marine che spargevano nell’aria un intenso profumo di fiori odorosi. I ricordi del poeta, che crescendo diventava uomo, si fissavano sulla carta leggeri ma anche carichi di una forte immediatezza espressiva come le pennellate di un pittore di acquerelli (Acquerelli d’Istria è anche il titolo di un articolo del 1948). Dopo la Seconda guerra mondiale e la conseguente perdita politica della penisola istriana da parte dello stato italiano, lo sguardo del poeta sulle terre d’oltreconfine rimase sempre quello della prima infanzia quando l’Istria era per lui terra mitica. Marin fu sempre convinto della possibilità di una convivenza pacifica tra le etnie, trovandosi però ad assistere triste e disarmato, alla fine degli anni Cinquanta, a quella che è passata alla storia come la diaspora giuliano-dalmata. È proprio del 1958 un articolo che racconta di una serata passata a Capodistria in occasione di uno spettacolo teatrale goldoniano. Il poeta, in una città svuotata di presenze italiane, rivide i luoghi della fanciullezza: tutto questo ispirò in lui una mirabile riflessione sulla storia. Quel luogo, che ormai aveva preso il nome slavo di Koper, continuava nel sogno e nella memoria a parlare italiano attraverso i suoi monumenti, le case, le lapidi. Scorrendo le pagine di questo libro ci si imbatte in numerose liriche in dialetto; leggendo le parti in prosa, come nota giustamente in introduzione Marco Giovanetti, si ha l’impressione che esse siano una sorta di parafrasi del testo poetico ma, volendo invertire il concetto, si può dire tranquillamente che è la musica del dialetto gradese a dettare i tempi della scrittura narrativa come nel resoconto di una giornata settembrina passata in bicicletta con la figlia a Cittanova raffigurata, nella metafora dei versi, come un bastimento che sta per salpare, un bastimento diventato simbolo stesso della nostra vita, da vivere e da afferrare per godere la gioia del momento presente prima che esso svanisca in un pallido ricordo: Calando in bicicletta zo da un cole / Drìo d’una svolta co’ i sipressi a sesa / hè visto i cupi russi d’un paese / e, in oro coldo, lumesâ una ciesa. // Me mancheva el respiro per ’nda ’vanti / e m’ hè fermào che ’vevo ’l cuor in gola; / e disevo a gno figia: / ‘Xe Sitanova che là zo s’insola’. // La pareva a l’armisio un bastimento / che fossa pronto per salpâ: / e che ’l spetessa solo el primo vento, / per pêrdesse in quel biavo de l’istà. // Oh, figia, ’ndemo a bordo / Prima che ’l vento no’ lo porti via, / se ’l salpa quel no’ lassa ssia, / ne resta apena un palido recordo.

MARCO PRINARI


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2007

XXI


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