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Diamo inizio al dibattito sull’odeporica e, specificamente, sui suoi modelli adriatici, presentando alcuni interessanti studi pervenuti per la partecipazione alla prima edizione del Premio Adriatico del CISVA, che proponiamo come primo spunto di discussione. Lo spazio del Forum scientifico è interamente dedicato a interventi di discussione critica, eventualmente anche in forma di brevi studi.

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EDITORIA TURISTICA E LETTERATURA ITALIANA SULLA SLOVENIA

creato da Daniela Strafellacreato 16/07/2007 10:25
EDITORIA TURISTICA E LETTERATURA ITALIANA SULLA SLOVENIA di Daniela Strafella INTRODUZIONE La Slovenia è uno dei Paesi che, nati dalla dissoluzione della Jugoslavia e del suo regime socialista, da poco fanno parte dell'Unione europea. Dominata per secoli da potenze straniere e protagonista di una storia travagliata e complessa, ha acquistato l'autonomia e l'indipendenza nel 1991 e da allora ha raggiunto a tappe veloci le vette delle istituzioni internazionali, distinguendosi come una delle giovani realtà europee più interessanti e all'avanguardia. Nonostante confini con l'Italia, sono pochi gli italiani a conoscerla, a parte ovviamente gli esperti e coloro che hanno dedicato la loro vita a promuovere la collaborazione culturale tra i due popoli, che per molto tempo si sono osteggiati. Questi contrasti sono stati il risultato di differenze culturali prima e di avvenimenti storici poi, dal momento che l'area del confine orientale è sempre stata oggetto di dibattiti e rivendicazioni territoriali, essendo importante a livello strategico. Tuttavia, in questi ultimi anni, è cresciuto l'interesse verso questo Paese da parte degli italiani, anche nell'ottica di fruttuose collaborazioni intellettuali, tese a scoprire o a rimarcare gli elementi di vicinanza. L'obiettivo è infatti il superamento dei confini territoriali e l'individuazione degli elementi di continuità, nell'ambito dell'Unione europea di cui entrambi i Paesi fanno parte. In questa prospettiva si situa anche il seguente lavoro, che vorrebbe essere un contributo, sia pur minimo, alla conoscenza interculturale tra le due nazioni. I contatti tra Italia e Slovenia non riguardano solo i nostri giorni, ma esistono dalla notte dei tempi, anche se non raggiungono i livelli d'interscambio instaurati con altre importanti nazioni europee. La scelta dell'argomento è il risultato di due grandi amori: i viaggi e la letteratura. A questi si è aggiunta una passione nuova, quella per la Slovenia, che nel corso degli ultimi anni si è rivelata una piacevole scoperta nonché un Paese ricco di cultura e di tradizioni, oltre che di storia e di paesaggi splendidi. Partendo dall'Alto Medioevo per arrivare ai primi anni del Novecento, ho cercato le tracce di giudizi o contributi di autori italiani che hanno viaggiato in Slovenia: questo per capire che concezione avessero del Paese confinante ad est con l'Italia e che immagine avessero veicolato del popolo che lo abitava. Al Novecento è stato invece dedicato un capitolo a parte, dal momento che è in questo secolo, grazie soprattutto all'esplosione del turismo di massa, che nascono nuove forme testuali più adatte ai tempi e alle situazioni emergenti. Inoltre, si riscontra una crescita lenta, ma esponenziale dell'interesse degli italiani verso i vicini dalla “parte soleggiata delle Alpi”, e la volontà degli sloveni di promuovere il loro Paese in Italia attraverso le traduzioni. Così si è dato conto della produzione italiana e slovena insieme, sempre tenendo presente la dimensione cronologica e suddividendo il materiale prodotto dagli anni Novanta in poi secondo categorie testuali. L'ultimo capitolo tratta infine delle quattro guide turistiche italiane sulla Slovenia attualmente presenti sul mercato italiano, proponendo un'analisi soprattutto dei contenuti, per capire la prospettiva adottata dagli autori italiani. Si è scelto di analizzare le guide perché rappresentano l'ultima evoluzione della letteratura di viaggio. Esse sono infatti frutto dell'esperienza dell'autore che visita il territorio e ne dà un resoconto a volte impersonale, dati i criteri di sinteticità propri di questa forma testuale, altre volte invece “sentimentale”, quando il vissuto entra nelle pagine e permette al lettore di vivere in prima persona l'esperienza dell'autore, un po' come succedeva nei resoconti di viaggio. L'auspicio è che questa ricerca possa contribuire all'apertura degli orizzonti culturali tra queste due nazioni, che hanno tanto da darsi. La cultura è sempre stata un forte sprone per la crescita della conoscenza reciproca e spesso è stata il motore di importanti eventi storici. È necessario lasciare da parte gli odi razziali e lavorare in comune per agevolare i contatti tra le popolazioni, così come tra le classi intellettuali. Gli sloveni hanno amato e amano molto la cultura italiana, gli italiani dovrebbero scendere dal piedistallo su cui molto spesso si collocano e volgere lo sguardo al di là delle Alpi, per scoprire quanto di culturalmente grande possa nascondere un piccolo Paese. CAPITOLO 1.GLI ALBORI DELLA LETTERATURA DI VIAGGIO ITALIANA SULLA SLOVENIA Nonostante le informazioni a riguardo siano davvero poche, è certo che un interesse italiano verso il mondo sloveno esisteva già prima dell'Umanesimo e del Rinascimento. Troviamo in questo senso ad esempio accenni fugaci da parte di papa Gregorio Magno già nel 600 d. C. e, successivamente, menzioni più ampie presso Paolo Diacono di Cividale. Dopo la prima invasione degli slavi nel 599 d. C., papa Gregorio Magno scriveva infatti all'arcivescovo di Salona (Spalato): Degli Slavi che a voi sovrastano grandemente mi addoloro e conturbo. Mi addoloro per ciò che voi patite, mi conturbo perché, per la via dell'Istria, gli Slavi cominciarono ormai ad entrare per l'Italia (Benussi, 1997: 87). All'epoca gli slavi erano visti come selvaggi invasori che depredavano e mettevano i villaggi a ferro e a fuoco e si alleavano con altre popolazioni barbariche premendo con esse per sconfiggere i longobardi, allora signori d'Italia. La gente ne era atterrita, un po' perché non li conosceva, un po' perché nutriva a priori una cattiva impressione nei loro confronti. Un altro importante personaggio di quel periodo storico, Paolo Diacono di Cividale (VIII secolo), ci fornisce nella sua Historia Langobardorum (Storia dei Longobardi), frutto dei suoi viaggi e delle informazioni ascoltate direttamente da chi aveva vissuto esperienze di contatto con gli slavi, qualche notizia in più su questo popolo che cercava di insediarsi nelle regioni confinanti con l'attuale Friuli Venezia Giulia. Nella sua dettagliatissima cronaca è annotata la battaglia tra gli sloveni, che egli chiama “Slavi”, i friulani e i longobardi nel 720 presso Lavariano, a sud di Udine. La battaglia fu indecisa, fino a quando il duca friulano Pemmo siglò la pace con gli sloveni sul campo di battaglia: ai friulani toccarono le terre pianeggianti e agli sloveni quelle collinose. Una divisione che, a parte delle piccole modifiche, non è cambiata ancora oggi. Paolo Diacono, che era un monaco che visse alla corte di Carlo Magno, per il quale scrisse, sembra accalorarsi quando parla delle vicine terre slovene, nelle quali qualche tempo prima aveva vissuto suo nonno, in fuga dalla prigionia degli ostrogoti. Egli delinea infatti l'eroismo dei soldati sloveni contro i bellicosi bavari e friulani e dice che: […] misero insieme un esercito forte e valoroso (cap.V, 20-23). Ma precedentemente, nel capitolo 24 del libro IV, aveva detto: […] entrarono nel territorio dell'Istria e devastarono ogni cosa con incendi e rapine. Poco dopo, nel capitolo 28, informa che […] il re Agilulfo […] assediò la città di Cremona con gli Slavi che il cacano re degli Avari gli aveva mandato in aiuto, e […] la rase al suolo. Allo stesso modo espugnò anche Mantova. Interessante è poi il riferimento che Diacono fa riguardo alla Carantania nel capitolo 22 del libro V: Ucciso Lupo nel modo in cui si è detto, suo figlio Arnefrit [...] fuggì presso gli Slavi a Carnunto, che chiamano, per corruzione del nome, Carantano. Infine, nel capitolo 24 del libro VI, si fa accenno al modo di combattere degli slavi: …gli Slavi si prepararono con decisione, e combattendo più con le pietre e le scuri che con le armi, li uccisero quasi tutti, dopo averli gettati giù dai cavalli. E così ottennero la vittoria non per la loro forza, ma per la fortuna. Emerge perciò il ritratto di un popolo molto forte, ma anche feroce, che distrugge tutto ciò che incontra nel corso delle battaglie e che mostra segni di “inciviltà” e barbarie, a giudicare dalla rozzezza delle armi di cui si serve. Armi che, proprio per la loro “primitività”, fanno più paura. Occorre comunque tenere presente che Diacono scriveva perlopiù sulla base di racconti orali: è possibile dunque che abbia un po' ingigantito la crudezza dei comportamenti slavi. Quattro secoli dopo lo storico cividalese, un nuovo accenno al popolo confinante a est con l'Italia lo troviamo nel De vulgari eloquentia di Dante. Il Sommo poeta fu probabilmente tra i “toscani” che si rifugiarono a Trieste e nella sua provincia. Dopo aver enumerato le regioni d'Italia, tra cui nomina anche Forum Iulii e Ystria alla sinistra dell'Adriatico, e dopo aver passato in rassegna i dialetti italici, nel capitolo XI del primo libro egli infatti scrive: Post hos Aquilegienses et Ystrianos cribremus, qui Ces fastu ? crudeliter accentuando eructant (citato in Benussi, 1997: 225). Tra Dante e l'Umanesimo intercorrono poi duecento anni di storia, densi di avvenimenti politici e culturali. Purtroppo, pochi sono in questo periodo i riferimenti da parte italiana alle popolazioni slave in generale e tantopiù agli sloveni. Immaginiamo che siano esistiti uomini e donne che per un motivo o per l'altro abbiano viaggiato in quelle terre o le abbiano attraversate. Probabilmente si è trattato spesso di religiosi, dato che conosciamo l'opera di evangelizzazione sostenuta dalla Chiesa proprio in quei luoghi. Ma queste non possono che rimanere supposizioni, in attesa che si scoprano nuove tracce e testimonianze dei contatti tra i due popoli. L'epoca dell'Umanesimo, che ben presto sfociò nel Rinascimento, “liberò l'uomo dalle sue pastoie medievali e gettò le basi granitiche del nostro individualismo e affinò la coscienza artistica e allargò gli orizzonti spirituali”(Cronia, 1933: 8). Tra le conquiste di questo periodo, oltre al già citato individualismo e al culto dell'“antico”, troviamo nuovi e originali contributi nella storiografia, nella geografia, nella filologia, ma soprattutto nell'epistolografia, nella biografia e nelle relazioni. In particolare, le storiografie divennero ricche di dati e di avvenimenti, in cui gli autori si dimostravano costantemente tesi all'accertamento di ciò che narravano. Non si parlava solo di storia locale, ma si aprirono gli orizzonti alle storie di altre nazioni, grazie agli umanisti e agli avventurieri che vissero nelle corti estere e scrissero poi di quelle e dei Paesi che li ospitarono. Oppure si trattava di dignitari ed eruditi che lasciarono testimonianza dei loro viaggi e delle loro missioni. È il caso per esempio del fiorentino Giovanni de' Marignolli che si recò a Praga al seguito di Carlo IV per divenire cappellano di corte e cronografo della Boemia. Scrisse perciò in latino una storia della Boemia e la inserì in una storia universale. Oppure è il caso dell'umanista Enea Silvio Piccolomini, poi divenuto papa Pio II, che scrisse pure della Boemia. Degli appartenenti a quella nazione aveva detto al concilio di Basilea che erano “eretici” e “orribili”; così si recò personalmente in quelle terre per studiare da vicino quei “terribili ribelli” e scriverne una storia attraverso la lente del cattolicesimo e dell'umanesimo, traendone un'impressione molto sfavorevole. È però proprio di questo papa, come ci informa Janko Jež , la prima nota importante sugli sloveni. Sappiamo che il 16 aprile 1444 egli informò infatti da Lubiana che le province slovene erano “barbare e illetterate”. Tale considerazione rivela l'atteggiamento un po' intollerante del Piccolomini nei confronti di quei popoli che ancora non si erano accostati completamente al cattolicesimo, o erano stati appena convertiti. Nonostante ciò, occorre ricordare che la sua è una menzione importante, anche perché più unica che rara nella storia delle citazioni che riguardano gli sloveni. Della fine del XV secolo è, sempre secondo Jež, la testimonianza di un viaggiatore anonimo nelle terre slovene, il quale notò che i nobili di quelle contrade indossavano dei cappotti con degli ornamenti di pelliccia ai polsi. Al cronista italiano questi capi non piacquero, ma ammetteva che fossero costosi e utili contro il freddo. Anche lui giudicava perciò con un po' di diffidenza il popolo vicino, ma la sua è più che altro una traccia di costume, ancorché interessante per immaginare il modo di vestire e di vivere della nobiltà locale. È stato inoltre accertato che in questo periodo furono molto intensi i rapporti tra gli sloveni e i mercanti italiani di frutta e vino che partivano per la Carniola dalle regioni del Litorale. Questi contribuirono anche all'infiltrazione delle abitudini e dei costumi italiani e litoranei. Da Risano giungevano poi i venditori ambulanti di arance, limoni, fichi, pesche, mandarini e uva sultanina. Non si trattava di uomini di cultura, è vero, ma è giusto citare questi contatti “naturali” tra gente che viaggiava o ospitava per necessità intrattenendo perciò rapporti commerciali. Un personaggio molto interessante dal punto di vista della testimonianza che ci ha lasciato è Paolo Santonino, cancelliere del patriarca di Aquileia, che tra il 1485 e il 1487 viaggiò attraverso la Slovenia. Egli racconta per esempio come nel castello di Rožek abbia assaggiato dell'ottimo vino rosso e bianco. Ogni invitato a quel convivio aveva un bicchiere di argento, di vetro o di cristallo. Sul fondo erano disposti, per rendere profumata la bevanda, assenzio, salvia e fiori di cappero. L'Itinerario di Paolo Santonino è tanto più importante perché rappresenta nella storia dei rapporti culturali tra italiani e sloveni prima del Novecento l'unica opera di letteratura di viaggio che verte interamente sulla Slovenia. Per questo le sarà dedicato un paragrafo a sé stante. Sappiamo da Janko Jež che lo storico veneziano Marino Sanudo citò gli sloveni nel 1483, mentre lo storico friulano Marc'Antonio Nicoletti (1536-1569) ci informa intorno alla metà del XVI secolo della vita culturale slovena e dei racconti, delle leggende o delle canzoni popolari, che narrano del re Mattia e in generale degli usi locali. In particolare, egli scrive dei tolminesi, che cantano volentieri nella loro lingua canzoni su Cristo e sui santi, ma specialmente su Mattia, il re ungherese, e su altri eroi della loro nazione. Questo è ciò che dice: Usano essi cantare in versi ne' vari modi della loro lingua le lodi di Christo e de' Beati nonché di Mattia re d'Ungheria e di altri celebri personaggi di quella nazione. Abbiamo queste notizie dal lavoro di Nicoletti Il patriarcato di Filippo d'Alenzon che si è conservato in forma manoscritta e di cui parla Francesco Manzano negli Annali del Friuli (1975). Questo passo rientra in una nota più ampia sui costumi dei tolminesi, che voglio qui riportare per la sua completezza. Il giudizio del Nicoletti sugli sloveni è abbastanza equilibrato. Egli discute infatti pregi e difetti dei loro usi e ci fornisce notizie altrimenti difficili da reperire: Gli Slavi di Tolmino abitano le montagne del Friuli opposte al settentrione, per le quali scorrono il Natisone, l'Isonzo, la piccola Sava, la Bistrizza, e la Tulmina, fiumi distinti pe' scelti pesci di cui abbondano. I Tolminesi sono semplici e religiosi, si piegano all'obbedienza de' superiori, astengonsi da' litigi, difendono gelosamente l'onor loro né perdonano l'offesa se non espiata legittimamente. Mantengono le franchigie a tutta fermezza, indossano costantemente lo stesso vestito, né si cangiano spesso a foggia spagnola, o tedesca, o francese […]. Provvedono a' bisogni della vita col bestiame di cui sono ricchi pe' molti pascoli che possiedono, e coi prodotti della loro terra. Nella maggior parte dei ricchi domina l'avarizia […], nullameno in certe occasioni, non si astengono dallo spendere. Maritano le figliuole con una dote d'alquanti animali, e per lo più di uno de' grossi […] (durante le nozze), dopo il lauto banchetto abbondante di cibi grassi, voluto dall'accostumanza, si pone sulla tavola un pane di vaga forma piano sferica, sovra il quale con stimabile gara versasi da que' rustici quella maggiore somma di denaro, in correlazione all'esser loro più o meno agiato, o alla volontà di mostrarsi da più degli altri; e quello che risulta più cortese, viene distinto con onoranza e vivo applauso da' circostanti, ed in segno di trionfo su quella gara di cortesia e di carità portasi a casa il pane accennato. Superstiziosi, credono oltremodo alla magia e perciò la sposa accompagnata da altre donne da una parte, e lo sposo con altri suoi più cari dall'altra, con grida contadinesche e con le spade snudate, tagliando gli alberi vicini, a rapido corso recasi alla casa maritale […] per campi o luoghi insoliti, onde così, essendo ignoto il sentiero ch'essi percorrono, resti vuota ai malvagi la volontà di nascondere sotterra alcun laccio magico, che inavvedutamente calcato producesse a quel maritaggio inaspettato malanno (Nicoletti citato in Manzano, 1975: 332). Un'altra nota importante riguarda invece la Carniola, di cui l'autore racconta l'origine dei popoli che l'hanno abitata e la abitano per poi passare ad una descrizione del paesaggio fitta di riferimenti agli uomini e alle loro caratteristiche. Ciò che più colpisce è però la descrizione di un fenomeno naturale che riguarda il lago di Cerknica, degna di una guida turistica. Anche in questo caso ripropongo la nota nei suoi passi principali, per non togliere nulla al gusto della lettura: È distinto ancora tutto il paese (la Carniola) in tre parti. L'una vicina a' popoli della Carintia è detta Carniola irrigua e bagnata, perché gode il comodo e l'amenità del Savo, della Lubiana e d'altri fiumi conosciuti. Nell'altra chiamata secca, per essere invero tutta sassosa, arsiccia e bisognosa d'acque: per lo più in povere capanne, oppur al cielo aperto, coperti di grossissimi panni vivono i Giapidi, o Charsi, o Tarsi (che così li chiama il gran Pio secondo nell'Europa sua) uomini pastorali di bello aspetto di corpo dritto ed elevato, di patienta bellicosa, e di tanta alterezza, che così ignobili riferiscono la loro prima origine alla nobiltà romana. Confondono con le schiave molte parole romane; ma traviate dalla vera pronuntia, e per non imprimere alcuna macchia nel sangue, non cercano la conservatione de' posteri con altri maritagli, che con le donne paesane. L'ultima che tocca la Croatia è posseduta da' popoli della Piuca. Costoro quasi ogn'anno con felice et infelice sorte, per l'escursioni e depredazioni repentine de' Turchi impoveriscono, e quasi ogni anno per la fertilità dei campi e dei colli arricchiscono. Osservano in spetie nel contado costumi veramente contadineschi, veramente lordi, ma abituati a tutti gli accidenti impensati. […] Riguardano molte cose meravigliose, ma soprattutto il Lago di Chirchiniviza, nel quale la natura a bel studio porge materia di affanno piacevole a gli intellettuali speculativi […]. Questo lago per lunghezza occupa quindici e più miglia, per larghezza due. Fa pesci, massime lucci […]. Esce dal letto per le piogge et ondeggia a guisa di fiume. Ma in tutti gli anni, nell'agosto, settembre, ottobre s'asconde e s'attuffa in un gran buco sotto il monte del villaggio detto Dolegnavas. Onde affatto seccandosi appare la sola terra così grassa, così feconda che fa fieno a comodo quasi di tutto il paese. E dopo il cammino di tre mesi rinascendo prorompe fuori dal medesimo buco e rubando la campagna agli animali terrestri la restituisce a' pesci (Ibi: 224-225). Arturo Cronia, nella sua opera Per la storia della slavistica in Italia del 1933, afferma che l'interesse del Nicoletti per la Slovenia è una conseguenza della fioritura in Italia della storiografia umanistica, che si traduceva allora soprattutto nello studio della Boemia e della Polonia per la loro importanza nel mondo cattolico e per lo splendore delle corti di Carlo IV in Boemia e degli Jaghelloni in Polonia. Si dedicavano minori studi in quel periodo ai rimanenti slavi, a parte forse i russi. Ricordiamo anche che nel 1927 è uscito a Udine il lavoro Leggi e costumi furlani di Nicoletti a cura di Pietro Zampa, che contiene note interessanti sulla vita degli sloveni della Slavia veneta e della regione del Risano. 1.1 IL CONTRIBUTO DI GREGORIO ALASIA DA SOMMARIPA E DI FRANCESCO ALMERIGOTTI I periodi della Riforma e della Controriforma ebbero come conseguenza l'accelerazione dell'interesse italiano per le regioni orientali, a causa della rinascita spirituale che interessò le aree in cui aveva attecchito il protestantesimo, tra cui la Slovenia. La Chiesa passò al contrattacco favorendo la pubblicazione in lingua slava e in caratteri slavi e latini di testi liturgici, dogmatici e morali. Vennero inoltre istituite scuole e corsi speciali per l'insegnamento delle lingue slave (a Roma, Loreto, Bari, Lecce, Bologna, Firenze, Fiesole). I pontefici Gregorio XIII, Urbano VIII e Benedetto X dimostrarono un grande interesse per il mondo slavo. Un ruolo importante per l'instaurazione di questi contatti culturali lo ebbe la posta, che contribuì a collegare strettamente la Slovenia con il mondo circostante. Nel 1587 si costruì sotto l'imperatore Rodolfo II la linea postale che partiva da Vienna e arrivava a Venezia passando da Lubiana. La linea di servizio postale a cavallo venne estesa nel 1588 da Lubiana fino a Gorizia e Venezia, mentre il servizio a piedi era già attivo dal 1573 ogni quattro giorni. L'incremento di tutti questi contatti rese sempre più necessaria anche una mediazione linguistica verso lo sloveno. A colmare tale lacuna ci pensò finalmente, nel 1607, frate Gregorio Alasia da Sommaripa, cui si deve il primo dizionario italiano-sloveno, il Vocabolario Italiano e Schiavo. L'opera contiene, oltre alla parte lessicografica, un'introduzione, preghiere e modi di dire, ma soprattutto un dialogo tra un viaggiatore e un oste in lingua italiana e slovena. Si tratta del primo dialogo pratico, “turistico”, annotato ad uso specifico del viaggiatore italiano venuto in contatto con autoctoni sloveni. Il titolo integrale dell'opera alasiana recita: Vocabolario Italiano, e Schiavo che contiene una breve instruzione per apprendere facilmente della lingua Schiava, le loro ordinarie salutationi, con un ragionamento famigliare per li viandanti. Aggiuntovi anco in fine il Pater Noster, l'Ave Maria, il Credo, i Precetti di Dio e della Chiesa, con alcune lodi spirituali solite a cantarsi da questi popoli nelle maggiori solennità dell'anno. Particolarmente interessanti per la nostra ricerca sono appunto le otto pagine dedicate al Ragionamento famigliare del viandante col paesano delle cose più necessarie, un capitolo che, come dice Košuta (2006: 3), è stato “finora poco esplorato e considerato, ma degno di maggiore attenzione in quanto incipit secolare della manualistica fraseologica slovena e primo esempio a stampa di conversazione pratica in questa lingua.” Inoltre, come afferma la slavista Neva Godini (citato in Košuta, 2006: 3), il Ragionamento può essere considerato “il primo colloquio sloveno stampato”. Il viandante, che in effetti potrebbe benissimo essere lo stesso frate, chiede al paesano informazioni circa la strada per Duino e un'osteria dove bere e riposarsi. Così, entrato nella locanda, ordina il pranzo: dobro mefso, inu bulfiga riba - buona carne e miglior pesce e subito dopo tiftiga ribella Proffecaua tolicai dobriga - quella ribolla di Prosecco tanto buona. Quindi contratta sul prezzo del vino e prosegue per Trieste. Qui si ritiene soddisfatto riguardo alla cena e al pernottamento, ma si dimostra scontento del vino, “più trifto” rispetto a quello di Duino. Dovendo proseguire il viaggio col cavallo, chiede poi informazioni sul buono stato di quest'ultimo con domande formulate sempre in versione bilingue: Hà beuuto? Ie più? Dateli la biaua, ch'io voglio ftar à vedere finche l'habbi mangiata. Daite mu ouas, da chiem videt docle bode io fneu. Dopo aver dato istruzioni per l'indomani mattina, il viandante si reca nella sua camera e saluta l'oste dicendogli: Andate con Dio - Puite s'Bogo. Per Košuta, l'autore di questo Ragionamento “manifesta una spiccata, sobria concretezza, […] che punta immediatamente all'essenziale senza però eludere i presupposti formali del dialogo né le formule di cortesia dell'epoca. […] Alasia vuole alleviare i comuni problemi del viandante italiano nel suo interfacciarsi con gli autoctoni sloveni, dipinti dal testo come gentili, disponibili e ossequiosi nei confronti dell'ospite” (2006: 4). Al fondamentale dialogo alasiano, primo esempio di letteratura “turistica” italiana verso la Slovenia, si accompagna nel medesimo periodo la grande opera storiografica Il Regno degli Slavi hoggi corrottamente detti Schiavoni del benedettino di Dubrovnik Mauro Orbini. Il volume uscì a Pesaro qualche anno prima del vocabolario alasiano, nel 1601. Si tratta della prima storia slava, scritta con precisione e profondità. Nonostante tratti del mondo slavo in generale, l'autore dedica vasto spazio agli slavi del sud e anche agli sloveni. Sempre dal punto di vista storiografico sono da ricordare le opere di Daniele Farlati, Illyricum Sacrum, pubblicata a Venezia in otto volumi tra il 1715 e il 1819, e di Francesco Almerigotti, Della estensione dell'antico Illirico ovvero della Dalmazia e della primitiva situazione dei popoli istri e veneti, uscita nel 1775, in cui l'autore aveva fatto riferimento ai popoli Carni e all'antico Norico. Il suo studio si concentrava però sull'orografia della regione dalmatica, prendendo in esame i trattati degli antichi geografi come Tolomeo, Plinio e Strabone. A loro si rifece per capire quanto e dove si estendesse la Dalmazia, giungendo alla conclusione che questa avesse il suo confine settentrionale (quello più discusso a causa dei continui cambiamenti di governo già a partire dall'epoca romana e a causa delle invasioni dei popoli del nord) nell'antico Norico. Diceva infatti Almerigotti in proposito nella sua opera: […] nel fine dell'Impero (romano) medesimo stabilita vedesi una particolare presidenza nell'Istria, allora quando passate essenso in potere di Giustiniano le Dalmazie, quel tralcio reciso dal Dalmatica governo, rimasta era l'Istria stessa in potre de' Goti. Il che maturamente considerato col confronto della Storia riferitaci da Procopio, che […] ci da chiaramente a conoscere, che le Dalmazie predette, […] estese fossero per ragion di governo fino al Norico sopraindicato al odierno Friuli sopraposto. Ciò viene confermato anche da Gionarde nel 552, il quale ci informa che “in allora la Croazia, la Liburnia, l'Istria, e la Carniola nella Dalmazia stessa comprendono” (Almerigotti, 1775: 26). Quello dell'Almerigotti era uno studio molto tecnico e preciso e riguardava questioni prettamente fisiche. Ciò non toglie che il suo tema principale ruotava intorno alla regione da secoli più contestata, quella appunto a ridosso del confine italiano. I riferimenti alla storia e ai trattati scientifici di importanti geografi precedenti, dimostrano infatti quanto l'autore si fosse interessato ai territori dell'attuale Slovenia. Astraendo l'Alasia, in questo periodo è comunque difficile trovare dei riferimenti circoscritti agli sloveni, poiché gli intellettuali italiani li inseriscono nei lavori sui serbi e i croati o insieme agli illirici in generale. È il caso per esempio dell'opera di Doglioni, Anfiteatro d'Europa, uscita a Venezia nel 1623, che tratta dell'“Illiride ossia Dalmatia, Croatia, Bossina, Servia, Bulgaria, Carnia, Carinthia et Stiria”. Occorre anche ricordare che nel 1718 nacque l'Accademia della lingua slava, sodalizio che fu in contatto diretto con l'Arcadia romana e con il suo segretario Crescimbeni. Questa Accademia trattava però soprattutto lo studio del serbo-croato ed era chiamata anche Colonia degli Arcadi Epidauriensi. Tuttavia, l'Arcadia romana aveva diramato le sue filiali in diversi centri culturali europei. Tra questi figurava anche Lubiana, dove nacque nel 1693, in pieno spirito barocco, l'Accademia operosorum, la cui anima fu Gregor Dolničar. Gli adepti di questo circolo erudito scrivevano in latino e si rifacevano al lavoro e agli studi della Accademia-madre italiana, attendendo soprattutto ad opere linguistiche come dizionari e grammatiche. 1.2 LE MEMORIE DI CARLO GOLDONI È interessante il fatto che durante il periodo preromantico aumentò l'interesse degli italiani per le nazioni slave minori, e in particolare per i popoli oltreconfine, suscitato soprattutto dall'impegno politico e culturale che accompagnò in quegli anni il risveglio degli slavi del sud e anche degli sloveni. Così ad esempio, Nicolai Grassi da Formeaso pubblica nel 1782 a Udine l'opera Notizie storiche della Carnia, dove per “Carnia” si intende “Carniola”. Se guardiamo però ad altri aspetti dei rapporti culturali tra italiani e sloveni nel secolo XVIII, ci accorgiamo di quanto fossero per esempio fecondi i rapporti tra Lubiana (e la Slovenia in generale) e le compagnie teatrali italiane. Contatti c'erano già da prima, ma in questo periodo diventano più fertili e continui. Se precedentemente si mettevano in scena soprattutto le opere di argomento religioso, dal 1750 le pantomime e il teatro delle marionette la fanno da padroni. Oltre a ciò gli equilibristi e gli acrobati italiani riscuotevano un grande successo tra la gioventù lubianese e spesso venivano ospitati nel palazzo del Municipio per più giorni, affinché potessero replicare i loro spettacoli. Di questi attori-circensi troviamo notizia negli archivi del Comune di Lubiana, dove alla fine del Settecento furono emesse dal magistrato della città autorizzazioni che permettevano alle compagnie, come quelle di Giuseppe Landini e Giacomo Chiarori, di esibirsi. Molto successo riscuotevano anche il teatro dell'Opera italiano e le opere melodrammatiche, che furono spesso tradotte appositamente per i teatri sloveni. Fu grazie alle commedie di Carlo Goldoni però, che la Slovenia iniziò a conoscere non più solo compagnie itineranti, ma anche singoli autori italiani. Goldoni aveva soggiornato nei paesi sloveni da ragazzo, precisamente nel 1728, quando si preparava al dottorato in legge. Di questo viaggio lasciò una testimonianza abbastanza dettagliata, anche se non molto estesa, nel capitolo XVII delle sue Memorie. Per sfuggire ad una ragazza che gli aveva strappato una promessa di matrimonio, si rifugiò a Gorizia dove si trovava suo padre, che era medico e stava curando il conte Lantieri, “luogotenente generale delle armate di Carlo VI e ispettore delle soldatesche austriache della Carniola e del Friuli tedesco”. Quasi subito, col conte e la sua famiglia si trasferirono a Vipack (Vipacco), “considerevole borgata della Carniola, posta alla sorgente d'un fiume che le dà il nome”, dove trascorsero quattro mesi “deliziosi”, grazie anche alla tavola della famiglia Lantieri che, pur non essendo troppo raffinata, era però molto abbondante. Dice Goldoni: Mi ricordo ancora il piatto d'arrosto ch'era di prammatica: un quarto di montone o di capretto, o un petto di vitello ne formava la base e sopra c'erano lepri e fagiani, ancora sormontati da pernici rosse e da pernici grigie; poi, beccacce o beccaccini e tordi. La piramide finiva con allodole e beccafichi. L'autore veneziano passa poi a descrivere i modi in cui questa portata veniva servita e annota quello che di solito era il resto del menù: Era anche di prammatica servire tre specie di minestre a ogni pasto: la zuppa di pane con gli antipasti; la zuppa di verdura alla prima portata, e orzo mondato col sugo d'arrosto; e mi dicevano che questo aiutava la digestione. Dei vini dice che: Erano eccellenti. C'era un certo vino rosso che chiamavano “fa figli” e dava luogo a piacevoli motti di spirito. Quindi, con la sua consueta ironia, Goldoni si lascia andare a “giudizi” sulle abitudini di questi ricchi locali. Non accetta di buon grado, perché ciò gli “dava un po' di imbarazzo”, di dover fare brindisi ogni momento durante il pasto. Gustosissima è infatti la scena del brindisi del giorno di San Carlo, che egli espone con compiacimento perché, scrive: Non so se in quel paese durino ancora le stesse usanze […], ma se in quelle contrade vi sono ancora uomini di quel tempo, come me, saranno ben contenti che io ne rievochi loro il ricordo. Così, con il suo stile aneddotico di viaggiatore sentimentale, attento ai costumi dei popoli con cui viene in contatto e pronto alle burle ma anche alle dimostrazioni di ammirazione, Goldoni descrive l'episodio in questo modo: Il giorno di San Carlo, si cominciò con Sua Maestà imperiale; a ogni convitato si porsero dei vasi da bere di struttura singolarissima. Si trattava di una macchina di vetro alta un piede, costituita da diverse palline che andavano diminuendo e che erano separate da piccoli tubi e finivano con un'apertura allungata che si presentava molto agevolmente alla bocca e da cui si faceva uscire il liquido. Si riempiva il fondo di questa macchina alla quale si dava il nome di glo-glo, e, intanto che se ne avvicinava la parte più alta alla bocca e si alzava il gomito, il vino, che passava attraverso i tubi e alle palline, dava un suono armonioso, e, poiché i commensali eseguivano l'operazione nello stesso tempo, ne veniva un concerto del tutto nuovo e molto piacevole. Ciò che emerge da questa nota di costume è il modo di essere gioviale e conviviale della nobiltà di Vipacco, anche se va rimarcato che non abbiamo notizia di come si divertisse invece la gente comune. Goldoni ci dà anche notizia dell'allestimento di un piccolo teatro di marionette, che era stato da tempo abbandonato “nonostante la grande ricchezza delle figure e delle decorazioni”. Con esso il commediografo veneziano intrattenne gli ospiti. Durante la permanenza in Slovenia, l'autore ebbe poi la possibilità di “fare un giro col segretario del conte, ch'era incaricato di commissioni per il suo padrone.” Così partì per quindici giorni “con la posta in un calessino a quattro ruote”. La prima tappa fu Lanbeck (Lubiana): […] capitale della Carniola, situata sul fiume che ha lo stesso nome. Di straordinario non vi trovai che dei gamberi d'una bellezza sorprendente e della grossezza delle aragoste. Ve n'erano di quelli lunghi un piede. La seconda tappa invece fu Graz: […] capitale della Stiria, dove ha sede un'antichissima e celeberrima università, ben più frequentata di quella di Pavia, poiché i tedeschi sono molto più studiosi degli italiani e meno inclini alle distrazioni. Purtroppo il viaggio non potè proseguire oltre e il giovanotto, pur con rammarico, attraversata la Carinzia e visitata Trieste, “cospicuo porto di mare sull'Adriatico”, tornò a Vipacco. È interessante notare come il Goldoni utilizzi per le città slovene il loro nome tedesco. Forse perché, essendo la nobiltà slovena per la gran parte di origine tedesca e avendo egli vissuto durante quei giorni con esponenti della classe alta, era stato da loro informato in questo modo. In effetti quella del Goldoni è la prima profusa testimonianza, a parte il diario di viaggio di Paolo Santonino, capace di darci qualche informazione sulle caratteristiche salienti delle città della Slovenia e sulle abitudini enogastronomiche della popolazione agiata. Dal 1761 in poi, Goldoni ebbe sempre moltissima fortuna in Slovenia. Le sue commedie furono rappresentate spessissimo, e questo fino al nostro secolo. Ovviamente si continuò ad ospitare le varie compagnie itineranti, anche perché, nel frattempo e proprio grazie a Goldoni, aveva preso piede la commedia dell'arte. In questo contesto vivace si fece strada “un movimento complesso, il quale è la maturazione, diremmo, la sintesi di diverse correnti settecentesche e in pari tempo la genesi, la fonte di nuovi delineamenti ottocenteschi” (Cronia, 1933: 38). Si tratta del preromanticismo, che si afferma verso la fine del XVIII secolo e che, sempre per dirla con Cronia “all'homo sapiens della cultura tedesca congiunse l'homo humanus della filosofia italiana e gettò le valide basi dell'umanitarismo, quindi del cosmopolitismo” (Cronia, 1933: 38). In questo periodo l'interesse per le letterature straniere e le tradizioni popolari si risveglia o si acuisce, e questo avviene anche nei confronti delle culture slave. Emersero raccolte di lettere, descrizioni geografiche più ampie, quadri storici più sofisticati, “giornali di viaggio” più dettagliati, informazioni commerciali, biografie. Si rielaboravano e si traducevano scritti stranieri. Insomma, fu prodotta una grande messe di opere che ancora una volta interessavano però soprattutto la Russia e la Polonia. Riguardo alla Slovenia possiamo però annoverare tra di esse il romanzo Gli ospiti di Resia, pubblicato a Udine nel 1827 da Quirico Viviani. In questi anni si assiste alla ricerca di nuove vie, nuovo pubblico, nuovi motivi. Protagonista è soprattutto la stampa periodica, che ebbe uno sviluppo esponenziale a partire da questo secolo. In tale contesto si segnalano, per i loro contributi anche slavi, i fogli milanesi Il Nuovo Raccoglitore ossia Archivi di geografia, di viaggi, di filosofia, di historia e Fama; il fiorentino Antologia; il trevigiano Il Giornale delle scienze e lettere delle provincie venete; nonché l'Osservatore triestino. Importante fu pure l'attività della Società per l'Alleanza italo-slava di Torino, che ebbe dei distaccamenti a Roma, Firenze, Pisa e Livorno. Era nata sotto l'influenza dell'interesse per i paesi slavi di Mazzini, il quale ne aveva profusamente parlato nella sua raccolta Lettere Slave. Soprattutto si ampliava l'interesse verso le nazioni slave più piccole e questo a causa dei fermenti di cui erano protagoniste, influenzate dalle idee che provenivano loro dall'Occidente. La storiografia fu specchio fedele del passaggio dal preromanticismo al romanticismo propriamente detto, a causa dell'“eco elettrizzante di lontani e vicini avvenimenti, sopra tutto, storici, politici, che in vario ordine si susseguirono per entro all'ampia cornice del risorto mondo slavo” (Cronia, 1933: 49). Un altro grande personaggio di quegli anni fu Niccolò Tommaseo, il quale però si interessò soprattutto della Serbia e della Russia. A lui si devono i Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci, usciti tra il 1841-1842 a Venezia, e gli scritti Intorno a cose dalmatiche e triestine, pubblicati nel 1847 a Trieste. Il suo interesse, a differenza di quello propriamente politico del Mazzini, si riversò soprattutto nell'ambito letterario e fu conseguenza attiva del sempre più frequente contatto italo-slavo lungo il confine orientale. Pur essendo triestino, egli ignorò completamente la vicina popolazione slovena, come fecero d'altronde gli altri colleghi letterati, pochissimi dei quali dimostrarono un'attenzione intellettuale verso quest'etnia. Qualche accenno su di essa è presente nell'opera Degli Slavi istriani di M. Facchinetti, pubblicata nel 1847 all'interno della rivista triestina Istria, e nell'opera anonima L'Austria e le popolazioni slave. Nel 1864 uscì invece sul Giornale di Udine lo studio Sul linguaggio slavo della Valle di Resia. Nonostante gli scarsi riferimenti agli sloveni, la storiografia italiana di argomento slavo si era fatta però nell'Ottocento più robusta e dettagliata. Ci si interessava non solo di storia e politica, ma anche di tradizioni popolari, di storia culturale. Si scrivevano trattati originali, uscivano pubblicazioni inedite, raccolte di atti ufficiali. I vari problemi storici e politici, venivano studiati dal punto di vista del diritto internazionale, civile, dal lato religioso e sociale. Ma non possiamo fare a meno di notare che ancora una volta tutta l'attenzione della classe intellettuale italiana veniva riposta nella Polonia, nella Russia e nelle nazioni degli slavi del sud. Riguardo alla Slovenia, qualche contributo di argomento perlopiù linguistico interessava soprattutto la parte confinante col Friuli, mentre L'Osservatore triestino pubblicava sulle sue pagine esempi di canti popolari sloveni, ma sempre all'interno di un quadro generale che interessava anche la Croazia e la Serbia. In Italia compaiono così all'epoca pochi scritti che facciano riferimento individuale agli sloveni, eccezion fatta per alcuni sporadici contributi sui giornali triestini Il Piccolo, Il Piccolo della sera e sui goriziani Il Rinnovamento e il Corriere di Gorizia, per ovvie ragioni di vicinanza geografica. Segue...

Storia di una "piazza"

creato da Mario Liguoricreato 16/07/2007 08:30
Nel piccolo volume „Istoria e descrizione della città di Belgrado“ si espongono, come si legge nel sottotitolo, „tutti gli avvenimenti accaduti a quella piazza nelle varie guerre co' Turchi“. L'opera risale al 1789, anno memorabile per l'Europa occidentale, ma intensissimo anche nella storia dei Balcani che, come ebbe a dire una volta Sir Winston Churchill, producono più storia di quanta ne possano consumare. Fin dall'incipit, Belgrado viene presentata come una città di frontiera „molto grande, forte, e popolata“— caratteristiche che la città ha conservato fino al nostro tempo. L'opera si apre con una descrizione molto asciutta delle dimensioni e della struttura della Belgrado dell'epoca: „La Città si può dividere in tre parti, che sono la Città bassa, la Città alta e la Cittadella. La Città bassa è la parte più considerabile: ella è rinchiusa da fortissimi baluardi, fiancheggiati da molte torri, alcune tonde, altre quadre; il suo circuito è di circa 900. tese, ed all'oriente, fuori del suo recinto, ha un Porto largo all'imboccatura di 20. tese, e qualche cosa più, a misura che si avanza nel suo bacino. La medesima parte di Città è lunga più di 80. tese, ed è munita di una forte torre, che difende l'entratura del Porto, con delle batterie, le quali guardano le due riviere; di maniera che i nemici non vi si possono avvicinare per acqua, senza esporsi ad un formidabile fuoco di artiglieria. La circonferenza di tutta la città con i sobborghi si fa ascendere da' più intendenti a 10. in 11. miglia italiane“. Fin dall'inizio, si diceva, Belgrado viene rappresentata come un luogo di frontiera. Un centro votato al commercio — „Non vi è città in Europa meglio situata per il commercio — e insieme grande crocevia balcanico: „[...] due vie si dipartono da quel gran crocevia che è Belgrado. Lungo la Sava, la strada porta a Zagabria e poi a Lubiana (Laibach in tedesco). Il secondo asse, che inizia a Belgrado, segue la valle della Morava fino a Skopje, per poi scendere lungo la valle del Vardar (in Grecia Axios) fino a Salonicco“. La città viene presentata come un crogiuolo di culture e grande babele balcanica. Vi trafficano „Mercatanti Turchi, Greci, Ebrei, Ungheresi, e Schiavoni, ed in specie quello detto di Costantinopoli“. Sappiamo che lo spazio balcanico è il luogo dell'incontro-scontro di più imperi, religioni, culture, stili di vita. Questo incontro-scontro ha attirato l'attenzione dell'autorevole storico Georges Castellan: „Continui sono stati i movimenti di genti, bellicose o pacifiche, e la storia ne ha compilato un elenco impressionante [...] Un tale mosaico di popoli si confonde ancora di più se si considera la cartina delle religioni“. Un altro storico, il croato Ivo Banac, sostiene che nei Balcani vi siano state migrazioni di popoli e anche di terre. In questo spazio aperto alla mescolanza culturale si colloca la Belgrado dei nostri tempi, centro dello stato serbo e grande cuore pulsante dei Balcani. Questa Istoria, tuttavia, è soprattutto la descrizione di una „Piazza“ e degli avvenimenti storici che la riguardano: „I Despoti della Servia, a' quali anticamente apparteneva Belgrado, temendo di non poter conservare una così rilevante Piazza contro gli sforzi della Porta Ottomanna, la venderono all'Imperator Sigismondo Re dell'Ungheria, che vi fece fare la maggior parte delle fortificazioni, che tuttavia si vedono, e che erano eccellenti in quei tempi“. La „Piazza“, dunque. Innanzitutto la fortezza di Kalemegdan, posta alla confluenza dei fiumi Sava e Danubio — Belgrado è in questo simile a tante altre città europee (come Cuneo e Coblenza, poste alla confluenza di due fiumi), centri in cui si sviluppano attività commerciali, ma anche roccheforti difficilmente conquistabili. Se osservato da lontano, dalla prospettiva dei ponti sulla Sava, oggi questo spazio è la cartolina tipica di Belgrado, sull'acqua, tra campanili di chiese ortodosse che guidano lo sguardo verso Kalemegdan. Con il suo grande parco che arriva fino alla via Knez Mihailova, il complesso di Kalemegdan è uno spazio aperto: l'area che i Turchi definirono Fićir-bajir, „radura in cui riflettere“ mentre si attende l'esercito nemico, oggi forse serve a riflettere sulla lunga e tormentata storia balcanica. Nel nostro tempo la fortezza di Kalemegdan è un museo all'aperto della storia di Belgrado, dominato dalla scultura del Vincitore realizzata da Ivan Meštrović, simbolo della liberazione dai Turchi. Lo spazio che va dalle torri alla Knez Mihailova contiene, fra l'altro, un pozzo romano profondo circa 60 metri — Belgrado è la Singidunum dell'epoca romana — in realtà realizzato dagli austriaci nel secolo XVIII. Gli austriaci costruirono anche la torre bianca detta Sahat kula, di forma ottagonale e con la porta in stile barocco, uno dei monumenti più rappresentativi di Belgrado. Un altro simbolo di Kalemegdan è la Fontana del Pascià Mehmed Sokolović, lo stesso che fece costruire il „Ponte sulla Drina“, testimonianza concreta della presenza ottomana nei Balcani e insieme capolavoro letterario di Ivo Andrić. Nel corso dei secoli, i Turchi posero diversi assedi alla fortezza di Kalemegdan, che fu più volte espugnata e più volte liberata. Questa „Istoria e descrizione della città di Belgrado“ descrive con dovizia di particolari, retroscena e descrizioni la storia dei vari assalti ottomani: assedi cruenti, scontri di eserciti che combatterono per secoli in questo luogo, o vi transitarono, mettendo a ferro e fuoco la fortezza e il territorio circostante. Il primo ad assediare Belgrado fu il sultano Amurat II, nel secolo XV: „In effetto Amurat II. vi pose l'assedio nel 1440. con un esercito numerosissimo, e con una formidabile artiglieria; ma da Giovanni da Ragusi, che ne era il Comandante, fu difesa con una estrema bravura: questo invitto guerriero essendosi accorto che i Turchi minavano la Fortezza, fece una contrammina, e la riempì di tutte materie ignee; ed allorché si avvide che gl'inimici vi erano sopra, le fece dar fuoco, dimodoché saltando in aria rimasero morti circa 17. mila Turchi. Amurat irritato, seguitò a batterla a breccia, con cannoni da 100. libbre di palla; ma finalmente dopo 7. mesi di stretto assedio, e dopo aver perduto 80. mila soldati, fu costretto a partire con sua vergogna e danno“. Un secondo attacco alla fortezza di Kalemegdan fu sferrato dal figlio e successore di Amurat II, il sultano Maometto II, nel 1456: „Nel 1456. Maometto II. figlio dell'accennato Amurat, sdegnato per la perdita sofferta dal Sultano suo padre, e volendo sperimentare, se era più felice dell'antecessore, si mise alla testa di una potente armata composta di 150. mila combattenti, con una numerosa, e terribile artiglieria, e s'incamminò verso Belgrado; egli coprì il Danubio di navigli armati, per impedire ai Cristiani di soccorrere la Piazza, ove il famoso Giovanni Corvino, cognito sotto il nome d'Unniade, Vaivoda di Transilvania, e Governatore dell'Ungheria, vi si era portato, risoluto di perire, o di salvare quella importante Fortezza […]. L'azione durò nonostante col maggior furore tutto il giorno, nella qual circostanza avendo gli Ungheri acquistata l'artiglieria del nemico, e voltatala contro il medesimo, lo vinsero, e lo dispersero, obbligando Maometto II. a profittare della notte vegnente per partire, dopo aver lasciati morti 40. mila de' suoi: in questa battaglia Maometto perdette un occhio, ed il valoroso Unniade morì poco dopo per le ferite ricevute in essa“. La terza volta i Turchi provarono a conquistare la fortezza con l'inganno: l'esito fu, tuttavia, di nuovo amaro: „Nel 1496. Aly-Bei Seraschiere di Bajazzette II. credette di rendersi padrone della Fortezza per mezzo di tradimento, ma il comandante Paolo Kinisio avendo scoperto i traditori, gli fece arrestare, ed aspramente morire; quindi unita una vigorosa armata scacciò i Turchi, che per la terza volta avevano tentato l'impresa di Belgrado“. Finalmente, nel 1521, Solimano II detto „Il Magnifico“, protagonista di numerose campagne militari preventive, riuscì nell'impresa di conquistare Belgrado, facendo leva anche sulla crisi dell'Ungheria e della minore età del debole re Luigi II: „Solimano dunque poté a suo bell'agio, con mine, artiglierie, ed altri artifici militari, e con poco danno dei Turchi, espugnar Belgrado, e rendersene assoluto padrone“. La fortezza fu nuovamente strappata ai Turchi nel 1688 dalle truppe comandate da Massimiliano II di Baviera. La battaglia fu particolarmente cruenta, come si evince dal seguente passo: „Finalmente dopo i più straordinari sforzi, ed il combattimento più ostinato, la Città fu presa, e gl'imperiali vi entrarono con quel furore, che inspira una lunga resistenza. La carnificina fu orribile, poiché vennero passati gli Ottomani tutti a fil di spada, e non fu perdonato nemmeno ai piccoli fanciulli“. Tuttavia Belgrado rimase per poco in mano all'esercito imperiale, siccome i Turchi l'assediarono di nuovo nel 1690, con un'armata di oltre 80 mila soldati e grazie all'uso di un ordigno che provocò una serie di esplosioni nella fortezza: „Il danno fu grandissimo; una parte della cortina saltò pure in aria con tutte le batterie, che vi eran sopra, ed aprì una breccia per la quale i Turchi potevano entrare a squadroni; molte truppe, che si trovavano ai vicini corpi di guardia, furono seppellite sotto le rovine di tanta parte di muraglia, e più di mille soldati, che erano sulla piazza d'arme, o rimasero uccisi, o feriti“. Un grande condottiero nelle lotte degli eserciti cristiani contro i Turchi fu il principe Eugenio di Savoia, che nel 1716 conquistò la fortezza di Petrovaradin, liberò il Banato e successivamente, nel 1717, scacciò da Belgrado un vasto esercito ottomano. L'esito della battaglia alimentò la leggenda di Eugenio: „I Turchi furono disfatti da tutte le parti, ed inseguiti fino sopra le alture, e sebbene tentassero di riunirsi, i Corazzieri gli sterminarono affatto; talché allora non pensarono ad altro, che a fuggire, lasciando in abbandono il loro campo con tuttociò, che vi era. La perdita degl'Infedeli sul campo fu di più di 10. mila, e più di 5. mila furono uccisi in vari luoghi dagli Usseri, e dai Rasciani […] Il bottino, che si trovò nel campo consisté in 131. cannoni di bronzo, 30. mortari, alcuni de' quali gettavano bombe di 200. libbre; 20. mila palle di cannone, 3. mila bombe, ed altre munizioni, che tutte furono riservate per S. M. I. ; il Principe Eugenio non volle per se, che la tenda del Gran Visir, che era magnifica al sommo grado; e tutto il rimanente fu abbandonato ai soldati“. In seguito nell'opera viene narrata la nuova presa della fortezza da parte dei Turchi, avvenuta nel 1739, „anno infausto“. In quell'anno „il Gran Visir partito da Costantinopoli, s'incamminò con una potente armata verso Belgrado“, ma stavolta la „Piazza“ fu ceduta con un trattato di pace: „Così nel dì 7. [settembre, N.d.R.] un Bassà Turco, nominato dal Gran Visir per Governator di Belgrado, fece il suo ingresso nella Piazza, con alcune centinaia di Giannizzeri alla presenza del Principe Ildburausen, e di diversi altri Generali Cesarei, tornando in tal guisa nelle mani degl'Infedeli, non sappiamo se per codardia, o per imprudenza massima, e mancanza di buona politica di due Generali, quella rilevante Fortezza, che era l'antemurale dell'Ungheria“. Ma questa pace poco onorevole non poteva non provocare lo stupore dell'Europa e le recriminazioni dello stesso imperatore Carlo VI, poco incline a un compromesso che mortificava le pretese imperiali nei Balcani: „Appena fu arrivata in Vienna la notizia della sottoscrizione di una pace conclusa in una maniera nuova, e inaudita, che l'Imperatore fece conoscere il suo dispiacimento per l'infausta precipitata esecuzione[...] e gran ragione aveva di farlo, poiché [...] dovette cedere Belgrado, Sabatz, la Servia, e la Vallacchia Austriaca, ed Orsova nuova; ond'è, che fecesi sapere alle Corti d'Europa, con una lettera circolare, ed alcune particolari, non essere mai stata intenzione di S. M. Cesarea di fare una pace sì poco decorosa, ma tutta la colpa doversi dare a' Generali Vallis, e Neupberg, che operarono contro le istruzioni avute dal loro Sovrano“. Dopo 49 anni di pace, l'Impero d'Austria e l'Impero Ottomano vennero di nuovo alle armi. Anche stavolta, come avveniva spesso nelle dispute fra questi due avversari, la contesa riguardava lo spazio di confine, le „terre di mezzo“ dei Balcani. E ancora una volta la „Piazza“ da conquistare era quella di Belgrado. L'impresa riuscì a Giuseppe II, che riottenne Belgrado nel 1789, a pochi mesi dalla propria morte: „Dopo soli circa 24. giorni di assedio, e appena 16. di trinciera aperta, è riuscito al prode, e attivo Maresciallo Laudon, con maggior celerità di qualunque altro Generale, e minore spargimento di sangue, rimetter Belgrado antemurale della Cristianità, e chiave delle Provincie Ottomane in Europa sotto il dominio dell'Augusto Imperatore Giuseppe II“. La piccola opera „Istoria e descrizione della città di Belgrado“ riveste un'importanza considerevole per diversi motivi. Il lettore non vi rintraccerà soltanto elementi di storia militare, non soltanto accenni alla composizione etnica e alle caratteristiche linguistiche della popolazione belgradese, ma anche elementi di geografia fisica che intendono mettere in risalto un territorio tutto interno, molto lontano dal mare e tuttavia segnato da diversi fiumi, come il Tibisco, la Drava, la Morava, la Sava e il Danubio — un mondo fluviale straordinario, il paradiso di ogni „potamologo“, che ci riporta alle lontane radici slave, alle vicende di genti abituate a vivere a stretto contatto con i vari fiumi dell'Europa Orientale. Concludendo, il piccolo volume „Istoria e descrizione della città di Belgrado“ è un documento importante nella storia dei rapporti tra l'Italia e la Serbia, che assume un valore ancor maggiore nel nostro tempo, quando la capitale della Serbia è anche „la capitale dei Balcani“, interessante sia sotto il profile culturale che politico. A più di due secoli di distanza, Belgrado non ha ancora raggiunto un suo equilibrio: la città che un tempo era meta di difficili conquiste militari, oggi necessita di conquiste diplomatiche altrettanto difficili, una su tutte il raggiungimento dello status di paese membro dell'Unione europea. Mario Liguori Istoria e descrizione della città di Belgrado, [a cura di Alessandra Taliani, Flavia De Luca]. - Belgrado, Istituto Italiano di Cultura, 2005, p.6. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 7. Georges Prévélakis, I Balcani, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 26. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 7. Georges Castellan, Storia dei Balcani, Lecce, Argo, 1996/1999, p. 21. Questa informazione è tratta dai miei appunti del corso di Storia dell'Europa centro-orientale tenuto presso l'Università degli Studi di Napoli “L'Orientale” dal professor Alfredo Laudiero (anni accademici 2002/03 e 2003/04). Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 9. Riporto qui dati citati a memoria, appresi nel corso di oltre due anni di soggiorno continuato in Serbia. Chi volesse approfondire la ricerca sulla città di Belgrado, veda: Gorica Zarić-Jovanović, Tourist Guide to Belgrade, Beograd, IPS Media, 2002; Ljubica Ćorović, Belgrade Tourist Guide, Belgrade, Kreativni centar, 2004; Nikola Tasić, History of Belgrade, Belgrade, Institute for Balkan Studies, Serbian Academy of Sciences and Arts, 2000; http://www.putovanja.info/sr/destinacije/1-Srbija/metropole/42-Beograd/atrakcije#193; http://sr.wikipedia.org/wiki/%D0%91%D0%B5%D0%BE%D0%B3%D1%80%D0%B0%D0%B4; http://www.beograd.org.yu/. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 8-9. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 9-11. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 11. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 12. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 15. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit, p. 18. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 28-29. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 30. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 31. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 35. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 35-36. Istoria e descrizione della città di Belgrado, op. cit., p. 40.

«Alla fine il treno si fermò alla stazione di Castellamare Adriatico»: su alcuni viaggi in Adriatico delle novelle pirandelliane.

creato da Michelangelo Finocreato 16/07/2007 08:25
«Alla fine il treno si fermò alla stazione di Castellamare Adriatico»: su alcuni viaggi in Adriatico delle novelle pirandelliane. È noto come il motivo odeporico rappresenti una delle più valide chiavi di lettura dell’opera pirandelliana. I viaggi reali e immaginari intrapresi dai personaggi pirandelliani, infatti, tracciano le coordinate di percorsi esistenziali e narrativi, la cui ricognizione offre la possibilità di sondare in profondità il macrocosmo poetico di Pirandello, di illuminare quell’abisso che ossessivamente ritorna nelle sue pagine e nel quale i personaggi perennemente sono immersi. D’altra parte, il viaggio, come diceva Sciascia, «è come una rappresentazione dell’esistenza, per sintesi, per contrazione di spazio e tempo; un po’ come il teatro, insomma: e vi si ricreano intensamente, con un fondo di finzione inavvertito, tutti gli elementi, le ragioni e i rapporti della nostra vita [...]»1. Quanto dice Sciascia individua il senso ultimo dei viaggi pirandelliani, i quali metaforizzano l’esistenza di ciascun personaggio-viaggiatore. La geografia degli spostamenti è assai variegata, per quanto, evidentemente, il viaggio compiuto da sud a nord, e in particolare dall’Isola al Continente, sia quello più ricorrente. In molte novelle ci si imbatte in personaggi che lasciano lo sperduto paesino di provincia per raggiungere le babeliche metropoli del Centro e del Nord. Viaggi spesso da incubo per chi, come il modello di viaggiatore pirandelliano, non ha mai osato attraversare quello specchio di mare nero che separa il microcosmo siciliano dal resto dell’universo, o non è mai entrato nel ventre del «demon», del «ferreo mostro»2. Ovviamente, un viaggio che conduca dalla Sicilia a Napoli o a Roma è un viaggio geograficamente sbilanciato verso ovest, verso il versante tirrenico. Eppure, esistono altri viaggi e soprattutto altri scenari, altri luoghi entro cui questi percorsi si compiono; e chiaramente la diversa geografia non incide sul significato e sulla caratterizzazione del viaggio, che si configura sempre e ovunque come momento epifanico per il personaggio, e proprio per questa sua prerogativa, come una minaccia, un’insidia, una prova difficile da affrontare: il viaggio come evento destabilizzante per il personaggio. Questo anche perché la diversità (apparente) dei luoghi attraversati rivela inevitabilmente e drammaticamente una monotona ed esasperante uniformità (evocata già dal «fragor cadenzato delle ruote»3 di un treno)4, che allude senz’altro alla altrettanto fittizia varietà delle esistenze e dei destini umani; a una impossibile possibilità di cambiamento. Si tratta dello stesso non senso del viaggio baudelairiano, degli stessi «cervelli infantili»5 destinati a divenire adulti. Ebbene, non può meravigliare la constatazione che alcune novelle narrino viaggi compiuti lungo l’Adriatico, né la connotazione complessiva di questi spostamenti: stesso lento trenino sgangherato e maleodorante, stessa «lercia vettura di seconda classe»6, stessa ambientazione notturna, stesso «senso di precarietà angosciosa che tien sospeso l’animo di chi viaggia»7, stessa inquietudine di fronte alla vastità disorientante del mare, un «mare sterminato [...] vivo e palpitante nella nera, infinita, tranquilla voragine della notte»8; infine, stesse implicazioni simboliche e metaforiche, in cui prevale quel sentimento di sradicamento, di non appartenenza riconducibile al tema di fondo di tutti i viaggi narrati da Pirandello: l’assenza di identità9. Tuttavia, è interessante notare come l’Adriatico faccia da sfondo a tre novelle assolutamente centrali all’interno del corpus pirandelliano (Il viaggio, Notte, Quando si comprende); racconti narrativamente e simbolicamente rilevanti, sia in rapporto al motivo del viaggio, sia in relazione ad alcuni nodi poetico-esistenziali dello scrittore agrigentino. Al di là delle numerose corrispondenze che avvicinano le tre novelle, il comune denominatore è rappresentato dalla modalità del viaggio, dal mezzo di trasporto utilizzato dai viaggiatori: il treno. Insieme al piroscafo, la macchina su rotaie è la protagonista assoluta degli spostamenti pirandelliani (sono trentaquattro le novelle che, in un modo o nell’altro, tematizzano il viaggio ferroviario). Un mezzo di trasporto, peraltro, ambiguo e controverso, che suscita la diffidenza, il timore e a volte il terrore nei personaggi pirandelliani10. In Notte (1912) si narra il viaggio del protagonista, Silvestro Noli, da Torino all’Abruzzo; «dalla sua vecchia casa paterna» fino «al luogo del suo esilio», verso «quel’alto umido paesello, privo anche d’acqua, coi pregiudizii angustiosi»11 in cui la moglie era nata e cresciuta12. Lo spartiacque tra questi due opposti mondi, tra queste due inconciliabili realtà è rappresentato da una stazione di passaggio (Castellamare Adriatico), luogo entro il quale il personaggio comprende il non senso dell’esistenza. La stazione diventa lo spazio epifanico che introduce a uno spazio altrettanto rivelatore, quella spiaggia e quel mare che sembrano ribadire, in maniera irrevocabile, l’insensatezza della vita di tutti gli uomini. In Quando si comprende (1918), l’intera vicenda è ambientata lungo la rete ferroviaria che costeggia il versante adriatico, e in particolare quello marchigiano. Qui è il treno a configurarsi quale luogo di rivelazione, e in particolare lo scompartimento che da «praticabile teatrale»13 si trasforma in spazio epifanico, in cui il personaggio finalmente comprende. Nella novella Il viaggio (1910), invece, l’Adriatico (Venezia in particolare) rappresenta l’ultima tappa di un lungo percorso – percorso innanzitutto esistenziale –, di un «viaggio d’amore, senza ritorno; viaggio d’amore verso la morte»14, che inizia nel profondo Sud e che, in maniera decisamente consapevole e non casuale15, si conclude nella spettrale e affascinante città lagunare. Nei tre racconti, dunque, l’Adriatico rappresenta lo spazio entro cui si compiono i destini dei personaggi, uno spazio evidentemente condizionato, determinato dal personaggio, uno spazio – come tutti i luoghi pirandelliani – fortemente simbolico, propriamente novecentesco, come la critica ha ampiamente riconosciuto16. L’Adriatico è il grande teatro dove i tre personaggi comprendono: è questa la parola chiave, il filo rosso che unisce le tre novelle. In Notte si legge: I due si fermarono sotto una delle lampade elettriche e si guardarono e si compresero.17 Nel finale di Quando si comprende: [...] La guardò, la guardò e tutt’a un tratto, a sua volta, come se soltanto adesso [...] comprendesse che alla fine [...] il suo figliolo era veramente morto per lui [...] scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi.18 Ne Il viaggio, infine: [...] E quando, dopo il viaggio notturno, le si aprì nel silenzio dell’alba la visione di sogno, superba e malinconica, della città emergente dalle acque, comprese che era giunta al suo destino; che lì il suo viaggio doveva aver fine.19 Nella novella Notte, il momento decisivo per il personaggio, quello che racchiude non solo il senso ultimo dell’intera vicenda narrativa, ma anche l’essenza stessa dell’idea e del significato del viaggio in treno pirandelliano, non coincide, paradossalmente, con il viaggio in senso stretto; esso è dato, infatti, da una pausa, da un intervallo forzato: l’attesa in una stazione di passaggio, che il viaggiatore considera una seccatura, un’inutile perdita di tempo, ma che, ancora paradossalmente (e perciò ancor più pirandellianamente), si rivelerà come il momento più intenso, forse più vissuto, di tutta l’esistenza del protagonista. Durante quest’attesa, infatti, Silvestro Noli si interroga sul senso della vita, per scoprire il suo non senso, la costituzionale, genetica infelicità di tutti gli esseri umani, e per smascherare quella follia che, infaticabile e inarrestabile, muove i destini degli individui. D’altra parte, è proprio la “follia” la condizione psichica che permette di oltrepassare l’apparenza della realtà e di coglierne le infinite e possibili contraddizioni. Una follia sui generis, evidentemente, che ricorda quella dei personaggi dei racconti di Hoffmann e di Poe, o ancor di più, la follia “saggia” dei personaggi di Nerval, Nodier e Gautier. Su molti treni pirandelliani viaggiano individui “folli”, ed è durante questi viaggi che la loro pazzia, sotto forme diverse, si manifesta, diviene rivelatrice dei loro modi di essere: una “follia” d’amore quella che Adriana Braggi consuma durante il suo viaggio in treno ne Il viaggio (1910); “folle” l’ottusità e ancor più “folle” l’improvvisa comprensione di un padre che prende finalmente atto della morte del figlio nella novella Quando si comprende (1918); “folli” sono i viaggi immaginari compiuti dall’«alienato» Belluca ne Il treno ha fischiato… (1914); “folli” i discorsi e i ragionamenti con cui il professor Terremoto intrattiene i suoi compagni di viaggio nell’omonima novella; “folle” e inaccettabile (per gli altri, il padre e il fratello) il suicidio della piccola Didì ne La veste lunga (1913); “folle” l’euforica corsa verso il mare del professor Corvara Amidei nella novella Va bene (1905); “folli” e incomprensibili (per una madre affranta per la partenza del figlio) le lacrime e i sorrisi elargiti ai soldati da una giovane e seducente ragazza in Jeri e oggi (1919); “folle” e imperscrutabile la metamorfosi che subisce il rispettabile avvocato de La carriola (1917), e che anticipa il gesto, “genuinamente folle”, compiuto una volta giunto a casa (far fare la carriola alla vecchia cagna); “folle” e surreale il viaggio compiuto dal protagonista di Una giornata (1936). Tutte le varie manifestazioni della “follia”, infine, trovano una spiegazione proprio nella novella Notte (1912), novella che, nella denuncia – da parte dei treni antropomorfizzati – «di dover trascinare […] la follia umana lungo le vie di ferro»20, sintetizza e racchiude il senso di tutte le possibili e molteplici “follie” che si compiono sul treno. Ecco, dunque, cosa trasportano i convogli pirandelliani: non passeggeri, ma un carico di sofferenze, di angosce, di turbamenti, di illusioni, di desideri e di speranze (un carico di individui deliranti), che trovano forma ed espressione in una follia umana, collettiva. D’altronde, paradossalmente, e per una sorta di legge del contrappasso, è proprio la follia che «accende i fuochi nelle macchine nere»21. Quella sconosciuta e insignificante stazione di passaggio recante il nome di Castellamare Adriatico, in cui Silvestro Noli è costretto da un disservizio ferroviario, si configura quale tappa fondamentale di un’intera esistenza; così come le cinque ore che deve scontare per fare soltanto altri venti minuti di cammino, tendono a dilatare in maniera incommensurabile i propri oggettivi confini temporali, per acquistare un’«immensità implicata» (come direbbe Ricoeur)22. D’altra parte, era quella la sorte dei viaggiatori che arrivavano con quel treno notturno da Roma e dovevano proseguire per le linee d’Ancona o di Foggia. Meno male che, nella stazione, c’era il caffè aperto tutta la notte, ampio, bene illuminato, con le tavole apparecchiate, nella cui luce e nel cui movimento si poteva in qualche modo ingannar l’ozio e la tristezza della lunga attesa. Ma erano dipinti sui visi gonfi, pallidi, sudici e sbattuti dei viaggiatori una tetra ambascia, un fastidio opprimente, un’agra nausea della vita che, lontana dai consueti affetti, fuor della traccia delle abitudini, si scopriva a tutti vacua, stolta, incresciosa.23 Il Caffè (come la sala d’attesa) delle novelle pirandelliane sembrerebbe contrapporsi alla stazione sotto ogni punto di vista (topografico-architettonico e semantico-simbolico): luogo più raccolto e intimo, spazio chiuso e rassicurante rispetto alla minacciosa dispersione degli ampi spazi di una stazione, luminoso, ordinato e confortevole, in grado di risollevare il morale dei viaggiatori e soprattutto di contrastare quel senso di precarietà che li tormenta, di rompere quel muro di paura, di silenzio e di smarrimento che la stazione inevitabilmente innalza. È il luogo degli incontri e dei discorsi con persone sconosciute o conosciute, che sembra dare una parvenza di rassicurante normalità, di consuetudine ad un luogo inconsueto e perturbante. Dovrebbe quindi configurarsi come lo spazio socializzato o della possibile socializzazione in contrasto con la stazione, il treno e l’indole stessa dei viaggiatori pirandelliani. In realtà, proprio il Caffè sembra essere, tra quelli pirandelliani, lo spazio della più inquietante ambiguità: dietro la facciata del vivere quotidiano, dell’apparente comunicabilità, si nasconde la più insofferente incomunicabilità, l’incomprensione, l’estraneità, la finzione; o peggio, emergono verità scomode e agghiaccianti, come nel caso de La morte addosso (1923) e Se… (1894), novelle che, strutturate narrativamente in modo opposto, celano un identico destino di morte. In Notte emerge in maniera esemplare la componente per così dire umoristica di questo spazio; il Caffè è addirittura il luogo che, spogliando gli individui, togliendo loro la maschera delle consuetudini, rivela drammaticamente l’inconsistenza e l’insensatezza della vita. Nel Caffè, dunque, i viaggiatori attingono brevemente al senso autentico dell’esistenza, in questo spazio «ampio, bene illuminato»24, lontano – come la vita – dai consueti affetti e dalle abitudini, scoprono la propria inessenzialità e quella di tutti gli altri, ri-conoscono quella nausea e quel disgusto che la routine quotidiana riesce a far dimenticare, o forse, soltanto a nascondere. Il silenzio surreale nel quale i viaggiatori in attesa sono quasi inconsapevolmente immersi viene improvvisamente rivelato (ai viaggiatori stessi) dal «fischio lamentoso del treno in corsa nella notte»25, elemento – non solo narrativo – che ricorre ossessivamente nelle novelle ferroviarie di Pirandello26, e che si configura sempre come epifania del silenzio. La novella Notte (insieme a La rosa), peraltro, è l’unica in cui l’associazione tra il lamento del treno e quello degli uomini è resa esplicita; in Notte, attraverso l’umanizzazione dei treni che «gridano di tratto in tratto il disperato lamento di dover trascinare così nella notte la follia umana lungo le vie di ferro»27. Se «tanti e tanti s’eran sentiti stringere il cuore al fischio lamentoso del treno in corsa nella notte»28 è perché questi tanti viaggiatori ascoltano in quel fischio il proprio disperato lamento, che è poi lo stesso dei treni sui quali viaggiano. Il fischio sembra essere l’eco di quell’urlo umano che Munch ha così mirabilmente immortalato, e nello stesso tempo un richiamo simile a quelli «strazianti»29 della novella En voyage (1883) di Maupassant o agli «ululati»30 dei treni caproniani nella poesia Nebbia (1952?). Il suono angoscioso del fischio, inoltre, contribuisce a proiettare, o propriamente a tracciare sui binari il destino dei viaggiatori. Se l’attesa in quella stazione di passaggio pare eterna e sbigottisce, è perché quell’attesa si consuma in un silenzio che per forza tiene il personaggio in uno stato di insopportabile sospensione. Ma il fischio che rompe il silenzio è altrettanto eterno (perché allude al destino) e destabilizzante (perché materializza lo smarrimento e la precarietà del viaggiatore): Ognuno d’essi stava lì forse a pensare che le brighe umane non han requie neanche nella notte, e, siccome soprattutto nella notte appajon vane, prive come sono delle illusioni della luce, e anche per quel senso di precarietà angosciosa che tien sospeso l’animo di chi viaggia e che ci fa vedere sperduti sulla terra, ognun d’essi, forse, stava lì a pensare che la follia accende i fuochi nelle macchine nere, e che nella notte, sotto le stelle, i treni correndo per i piani bui, passando strepitosi sui ponti, cacciandosi nei lunghi trafori, gridano di tratto in tratto il disperato lamento di dover trascinare così nella notte la follia umana lungo le vie di ferro, tracciate per dare uno sfogo alle sue fiere smanie infaticabili.31 Questo passo esprime perfettamente il senso e l’immagine del viaggio (in treno) pirandelliano: un treno in corsa nella notte, un fischio lamentoso, l’angoscia e l’ambascia dei viaggiatori, il loro senso di smarrimento e la follia quale forza misteriosa e imperscrutabile che muove l’esistenza. Una volta riemerso da questo abisso di alienanti considerazioni, Silvestro Noli decide di uscire da quella sperduta stazione che si affaccia sull’Adriatico, stazione ormai trasformatasi in una soffocante trappola esistenziale, per «andare alla spiaggia, a respirar la brezza notturna del mare»32. Ma lo spazio aperto e infinito che lo attende non è che l’identica, disarmante ripetizione (sotto altra forma) del luogo chiuso dal quale era evaso. Lo spettacolo offerto dal mare sembra infatti raccontare, rappresentare lo stesso dramma al quale Silvestro ha già assistito. Incontrata la moglie di un collega morto pochi mesi addietro, il professor Noli, in compagnia della vedova, si dirige mestamente verso il mare. Ma, come sempre in Pirandello, la vicinanza tra due individui ugualmente condannati, ugualmente segnati dalle avverse vicende della vita, non comporta un avvicinamento, una solidale comprensione, una confortante complicità33. È vero che Silvestro Noli e la signora Nina si guardano e si comprendono, ma si guardano e si comprendono per riconoscere negli occhi dell’altro la propria medesima sofferenza, e dunque per eluderla, per respingerla. La profonda pietà che l’uno sente per l’altra, infatti, «li persuadeva amaramente a tenersi discosti l’uno dall’altra, chiuso ciascuno nella propria miseria inconsolabile»34. Trincerati dietro questo muro di necessaria indifferenza, con la quale preservare gelosamente e rendere inviolabile la propria intima miseria, «[a]ndarono muti, fino alla spiaggia sabbiosa, e si appressarono al mare»35: La notte era placidissima; la frescura della brezza marina, deliziosa. Il mare, sterminato, non si vedeva, ma si sentiva vivo e palpitante nella nera, infinita, tranquilla voragine della notte.36 I due vengono adesso inghiottiti dalla voragine infinita della notte, tranquilla perché nasconde il mare sterminato, perché maschera, temporaneamente, le sofferenze della vita, avvolgendo le illusioni del giorno, inghiottendo in un mistero profondo quei due fantasmi, quelle due ombre senza identità, senza dimora che vagano sulla spiaggia: I due seguitarono ad andar muti un lungo tratto su la rena umida, cedevole. L’orma dei loro passi durava un attimo: l’una vaniva, appena l’altra s’imprimeva. Si udiva solo il fruscio dei loro abiti.37 Eppure, il suono tenebroso e insonne dell’Adriatico, la magica e rassicurante oscurità della notte hanno il potere di avvicinare gli individui che soffrono, di renderli partecipi di un identico destino, che per quanto tragico si rivela essere non solo il destino di tutti gli esseri umani, ma quello di tutto l’universo. La vastità imperscrutabile del mare, amplificata dall’immensità impenetrabile della notte, aiuta a comprendere proprio questo, sollecita una domanda alla quale gli uomini non possono e non sanno rispondere perché, e questo è il punto, quella domanda non ha una risposta. Questa rivelazione, suggerita dall’infinità del mare e della notte, aiuta ad alleggerire il peso dell’esistenza, a perdersi (in modo solo apparentemente dannunziano) nello spettacolo della natura: Tacquero di nuovo. Guardando entrambi nella notte, sentivano ora che la loro infelicità quasi vaporava, non era più di essi soltanto, ma di tutto il mondo, di tutti gli esseri e di tutte le cose, di quel mare tenebroso e insonne, di quelle stelle sfavillanti nel cielo, di tutta la vita che non può sapere perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire. La fresca, placida tenebra, trapunta da tante stelle, sul mare, avvolgeva il loro cordoglio, che si effondeva nella notte e palpitava con quelle stelle [...]. Le stelle, anch’esse, lanciando quei loro guizzi di luce negli abissi dello spazio, chiedevano perché; lo chiedeva il mare con quelle stracche ondate, e anche le piccole conchiglie lasciate qua e là su la rena.38 Il tentativo di partecipare alla vastità del mondo, tuttavia, è e resta un’illusione, destinata a svanire con la luce del giorno, quella luce che dà nuovamente e inevitabilmente vita alle forme. E così, ancora una volta, viene negata una totale, e soprattutto duratura compartecipazione dell’uomo allo spettacolo della natura (in maniera decisamente antidannunziana); l’individuo si ritrova solo con la propria infelicità, con in bocca il gusto agrodolce di chi ha, per un attimo, assaporato davvero l’esistenza attingendo al suo fondo autentico: Ma a poco a poco la tenebra cominciò a diradarsi, cominciò ad aprirsi sul mare un primo frigido pallore d’alba. Allora, quanto c’era di vaporoso, d’arcano, quasi di vellutato nel cordoglio di quei due rimasti appoggiati ai fianchi della lancia capovolta nella sabbia, si restrinse, si precisò con nuda durezza, come i lineamenti dei loro volti nella incerta squallida prima luce del giorno. Egli si sentì tutto ripreso dalla miseria abituale della casa vicina, ove tra poco sarebbe arrivato [...].39 Alla notte si sostituisce il giorno così come all’incanto sovrumano del sogno e della poesia (eco dei «sovrumani silenzi» leopardiani) si sostituisce la condanna umana della realtà-incubo. La luce che impietosamente illumina i volti disfatti dei due protagonisti ribadisce crudelmente la frattura insanabile tra l’uomo e il paesaggio, tra il desiderio e la realtà, e sembra ricondurre quella terribile domanda – «perché» – ad un ambito esclusivamente umano. Quel senso di indeterminato e di infinito associato al mare, un mare, per di più, immerso nel buio della notte; quell’immensa distesa d’acqua in cui perdersi e annullarsi, in cui propriamente naufragare; quel suono arcano ma rassicurante del mare vivo e palpitante che culla dolcemente i pensieri dei due personaggi: l’effetto anestetico, quasi narcotizzante di tale realtà dura fin quando l’invisibile ridiventa visibile, fin quando al sentire subentra il vedere e la vastità di quello stesso mare non è altro che la denuncia dell’infinita piccolezza della miseria umana. Il rapporto tra l’individuo pirandelliano e il paesaggio risulta essere piuttosto ambiguo e contraddittorio. Non si attua mai compiutamente un’unione panica – come sembrano suggerire Zangrilli, Terracini e Pupino –, e se essa avviene, comporta delle conseguenze profondamente negative per il personaggio, conseguenze che rompono inevitabilmente l’idillio, si infiltrano come crepe a minacciare l’integrità di tale sodalizio (vedi Vitangelo Moscarda, che ritrova l’identità e la propria autentica dimensione soltanto a patto di essere nessuno o Belluca che paga con l’isolamento e l’alienazione le sue «azzurre fronti di montagne nevose», la sua «capatina» in Siberia o nelle foreste del Congo40). La natura offre un rifugio solo parziale e contraddittorio41 ai personaggi pirandelliani, che non possono trovare alcuna collocazione, né esistenziale, né propriamente ‘spaziale’.42 Il loro destino sembra essere quello di vagabondi, di erranti, di viaggiatori, proprio come Vitangelo Moscarda che è «[t]utto fuori, vagabondo»43. La novella Notte ne è una conferma evidente. Ciononostante, i due protagonisti della novella possono ritenersi fortunati, perché potranno gelosamente custodire il ricordo di quella notte, in cui l’arcana amarezza della vita è stata avvolta, per un istante, da un alone d’arcana poesia, un istante che nella loro memoria conserverà la sensazione, l’impressione dell’eternità: Nel più profondo recesso della loro anima il ricordo di quella notte s’era chiuso; forse, chi sa! per riaffacciarsi poi, qualche volta, nella lontana memoria, con tutto quel mare placido, nero, con tutte quelle stelle sfavillanti, come uno sprazzo d’arcana poesia e d’arcana amarezza.44 Treno e mare, viaggio su rotaie e viaggio sull’acqua rappresentano nell’universo pirandelliano lo spazio ideale e assoluto dell’annullamento completo, della dispersione totale, della morte così come Pirandello la intende. Non è un caso che siano questi i viaggi prediletti dai personaggi pirandelliani. La novella Notte esemplifica perfettamente questa predilezione e il senso pirandelliano della fine, dell’inconsistenza dell’essere. Stesso scenario nella novella Quando si comprende. Anche qui infatti il viaggio si compie lungo la linea adriatica e, verosimilmente, il treno che trasporta i viaggiatori è lo stesso atteso da Silvestro Noli in Notte: I passeggeri arrivati da Roma col treno notturno alla stazione di Fabriano dovettero aspettar l’alba per proseguire in un lento trenino sgangherato il loro viaggio su per le Marche.45 Questa volta, però, l’autore decide di raccontare, o più esattamente, rappresentare il viaggio dei personaggi piuttosto che la loro attesa in stazione; viaggio che proseguirà «in una lercia vettura di seconda classe», anzi, precisamente «nell’angustia opprimente di quella sudicia vettura intanfanata di fumo»46. Tra le novelle ferroviarie, Quando si comprende è l’unica interamente ambientata lungo l’Adriatico. Essa mette in scena i discorsi di sette viaggiatori riguardanti la partenza dei figli per la guerra. Al centro della rappresentazione ci sono una madre affranta «per l’improvvisa e imminente partenza dell’unico figliuolo»47 e un padre (suo marito) che, non senza imbarazzo, cerca di spiegare ai compagni di viaggio il motivo di quella inconsolabile disperazione, «e non tanto per confortarla e confortarsi, quanto per persuaderla dispettosamente a una rassegnazione per lei impossibile»48. Durante il viaggio, i passeggeri, a turno, prendono la parola illustrando il proprio punto di vista: da quello che invita i coniugi a ritenersi fortunati per il fatto che il figlio sia partito soltanto ora, mentre il suo è già su dal primo giorno della guerra, a quello che quasi li invidia perché di figli ne ha due al fronte, oltre a tre nipoti. Ad un certo punto entra in scena l’attore principale, il vero protagonista della novella, un padre che ha già perso il figlio in combattimento e che non ammette, non concepisce il dolore di quella madre per una morte così gloriosa: – Ma che discorsi! – scattò a questo punto un altro viaggiatore, grasso e sanguigno, guardando in giro coi grossi occhi chiari acquosi e venati di sangue. Ansimava, e pareva gli dovessero schizzar fuori, quegli occhi, dalla interna violenza affannosa d’una vitalità esuberante, che il corpaccio disfatto non riusciva più a contenere. Si pose una manona sformata davanti alla bocca, come assalito improvvisamente dal pensiero dei due denti che gli mancavano; ma poi, tanto, non ci pensò più e seguitò a dire, sdegnato: – O che i figlioli li facciamo per noi? […] Figlio mio, t’ho partorito Per la patria e non per me…49 Il personaggio tiene banco recitando perfettamente la propria parte, e continua indisturbato e sicuro nel suo assolo fin quando non accade qualcosa di imprevedibile e imprevisto. Il confronto con gli altri, il ruolo nel quale potersi identificare è infatti accettabile e sostenibile fin quando si basa su un copione già scritto, fin quando cioè, ognuno degli interlocutori recita la propria parte, indossa la propria maschera. Ma nel momento in cui qualcuno trasgredisce le regole del gioco, della farsa, contravviene ad un codice pseudoteatrale basato sulla prevedibilità delle domande e delle risposte, sull’inautenticità delle battute e sulla convenzionalità del copione, allora è sufficiente un’osservazione banale ma sincera, una «domanda incongruente» ma spontanea, una «meraviglia fuor di posto» ma autentica, a neutralizzare i meccanismi difensivi della coscienza, facendo affiorare in modo traumatico e sconvolgente tutto il rimosso: Ma dunque… dunque il suo figliolo è morto? Il vecchio si voltò a guardarla con quegli occhi atroci, smisuratamente sbarrati. La guardò, la guardò e tutt’a un tratto, a sua volta, come se soltanto adesso, a quella domanda incongruente, a quella meraviglia fuor di posto, comprendesse che alla fine, in quel punto, il suo figliolo era veramente morto per lui, s’arruffò, si contraffece, trasse a precipizio il fazzoletto dalla tasca e, tra lo stupore e la commozione di tutti, scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi.50 Quest’uomo, che per tutto il viaggio aveva sostenuto la parte del padre fiero e orgoglioso della morte del proprio figlio, esaltando la morte per una giusta causa come la patria, si è talmente immedesimato nel ruolo che gli è stato assegnato e che in parte si è lui stesso costruito, da non capire che, effettivamente, dietro quelle parole sprezzanti per il dolore e per la sofferenza, dietro quel ribrezzo quasi disumano per il pianto – «bisogna non piangere, ridere… o come piango io, sissignori, contento»51 – il suo figliolo era morto. Soltanto quando una «domanda incongruente» apre una crepa nel muro di finzione, come lo strappo nel cielo di carta che immobilizza Oreste, quell’uomo comprende finalmente di aver perduto un figlio. La tragedia dell’anonimo viaggiatore è la stessa di Oreste in un teatro di marionette, bloccato, sconcertato da «uno strappo nel cielo di carta»52. Il treno notturno che, in Quando si comprende, corre «su per le Marche» è il treno della guerra in senso stretto, dal momento che la novella è ambientata nel periodo del primo conflitto mondiale e che la discussione tra i passeggeri riguarda il conflitto bellico; ma è anche il teatro di una guerra di natura diversa, una guerra psicologica combattuta strenuamente dai personaggi, i quali parlano della guerra e si fanno la guerra. Emblematico è proprio il conflitto tra i due protagonisti della novella, che si fronteggiano da posizioni antitetiche, adottando tattiche opposte (offensiva il padre, difensiva la madre). Da una parte un padre che esalta e glorifica la morte del figlio in guerra, “una morte spesa bene”, per la patria, dall’altra una madre angosciata e terrorizzata all’idea che il figlio sia partito per il fronte, afflitta e inconsolabile per «questa partenza a tradimento». Due opposti sentimenti di una stessa realtà, dunque: il «sentire inautentico dell’uomo» e il «sentire vero, profondo, quasi animale, della madre»53. L’autenticità e la verità del dolore di quest’ultima interrompono «la farsa lugubre di una danza di marionette»54. Per questo, alla fine, sarà l’uomo a comprendere tutto l’orrore della guerra nel prendere finalmente atto della scomparsa del figlio, non la donna a farsi una ragione per quella partenza del suo unico figliolo. I due viaggiatori, che all’inizio occupavano due posizioni lontanissime, inconciliabili, finiranno col convergere nello stesso punto di osservazione dal quale giudicare la guerra, uniti nell’identico dolore di un padre che piange la morte del figlio e di una madre disperata per l’assenza del proprio. In primo piano, quindi, c’è il dramma che si consuma in questa «lercia vettura di seconda classe», il dramma di genitori che capiscono o che sperano. È proprio l’improvvisazione di uno di questi (la madre) che, infrangendo le regole della rappresentazione, contravvenendo al copione e al proprio ruolo, illumina, con «quella domanda incongruente» («Ma dunque… dunque il suo figliuolo è morto?»), la coscienza di un padre ottusamente trincerato dietro e dentro la propria parte, un padre che soltanto adesso comprende che «il suo figliolo era veramente morto per lui». È come se soltanto la voce della madre, la voce femminile riuscisse a materializzare davanti agli occhi del padre l’evento, la cui realtà egli non voleva, non poteva accettare. Quella voce femminile, così diversa dalla voce maschile, compie «l’atto trasgressivo» – pronunciando la parola morto –, che «interrompe il tragico rito collettivo»55. Ecco il punto: al dolore per la perdita del figlio, alla coscienza della sua morte, si aggiunge la certezza che quel figlio era veramente morto per lui: si aggiunge cioè il trauma per la perdita della propria identità. Sì, perché non avere più il figlio significa anche non avere più la persona in grado di dargli una realtà, una consistenza; la tremenda rivelazione di quella morte rivela anche la propria morte, come accade – a ruoli invertiti – al protagonista di Colloquii coi personaggi (1915)56. Il teatro in cui si consuma il dramma di questo Amleto novecentesco è lo scompartimento, che, tra tutti gli spazi ferroviari, rappresenta indubbiamente il luogo privilegiato per la complessa e ambigua simbiosi tra spazio e personaggio; privilegio giustificato, evidentemente, dall’intrinseca e marcata teatralità di tale luogo. Si direbbe che la carrozza di un treno rappresenti l’habitat naturale per la massima affermazione e la piena espressione dello status di personaggio, con meccanismi assai diversi che però portano ad un medesimo risultato: la rivelazione del personaggio stesso. A volte, infatti, nello scompartimento si tocca il vertice della teatralizzazione, sia per quanto concerne il personaggio (che si fa propriamente attore), sia per quanto riguarda la narrazione che coincide in maniera evidente con una rappresentazione teatrale, registrando lo slittamento dal piano narrativo a quello scenico-recitativo (Quando si comprende e Jeri e oggi)57. Eppure, anche quando la finzione sembra prevalere, lo scompartimento fa crollare il castello di menzogne e di apparenze innalzato dall’individuo. Esemplare, appunto, Quando si comprende, che sin dal titolo annuncia la funzione epifanica di questo spazio. Salvo rare eccezioni, lo scompartimento di un treno è un ambiente particolarmente claustrofobico per il personaggio pirandelliano58: si pensi alla novella Notte, in cui l’«olio caduto e guazzante»59 della fiammella nello scompartimento sembra metaforizzare il senso di annegamento che tormenta il viaggiatore, o al «senso d’atroce afa»60 con il quale si sveglia in treno il protagonista de La carriola, sensazione che ricorda la «soffocante e atroce afa della vita»61 avvertita, sempre in treno, dalla piccola Didì ne La veste lunga. La sensazione claustrofobica suscitata dallo scompartimento deriva anche da considerazioni oggettive di natura strettamente architettonico-spaziale: il fatto di essere un luogo chiuso e ristretto, infatti, costringe i viaggiatori a rompere quel muro di silenzio e di incomunicabilità che prevale nei rapporti quotidiani, e a confrontarsi, a parlare, a esporsi (pur indossando una maschera). La vita che prende forma in questo angusto spazio, fatta di discorsi, di silenzi, di gesti e di sguardi, finisce con la fine del viaggio, così come le commedie e le tragedie inscenate su un improvvisato palcoscenico. Ma un nuovo viaggio costringerà altri individui a condividere il medesimo tempo e il medesimo spazio, e allora verrà scritto un nuovo copione. Cambierà tutto eccetto la scenografia: un finestrino, «un sudicio bracciuolo», «una fiammella fumolenta», un paesaggio che schizza via nell’«ultimo tetro barlume del crepuscolo», una vettura di prima classe (Il professor Terremoto, La veste lunga, Sua Maestà, Jeri e oggi), una «lercia», «sudicia» vettura di seconda classe (La rosa, Quando si comprende, Notte) o di terza (Va bene, La balia). Tra queste diverse classi, la seconda sembra essere quella più consona al viaggiatore pirandelliano, se è vero che, come sottolinea Mario Morasso, «essa è ben l’invenzione più sordida del più basso sentimento borghese, [...] l’espressione più irritante della mediocrità tronfia e ipocrita, [...] la menzogna disgustosa, [...] il goffo simbolo dell’apparire e non essere»62. Lo scompartimento, dunque, costituisce un luogo perturbante per gli individui pirandelliani, che vengono inevitabilmente messi sotto pressione, un luogo che mina e destabilizza la già fragile integrità psichica dei personaggi. Questa prerogativa dello scompartimento di attentare, sotto varie forme, all’incolumità dei viaggiatori, contribuisce senz’altro all’atteggiamento solitamente diffidente, allergico del personaggio e, per contro, al favore accordatogli dall’autore, che può utilizzare lo scompartimento come una vera e propria stanza della tortura in cui condurre i propri esperimenti (artistici) alla stregua di un chirurgo che anatomizza i suoi pazienti-cavia. D’altra parte, l’autore contribuisce alla resa estremamente teatrale della situazione, preoccupandosi di assegnare a ciascun viaggiatore il proprio posto, dotandolo di un bagaglio fisico e morale specifico, affidando, come un capocomico, le parti. E, proprio come a teatro, anche nello scompartimento di un treno esistono posti migliori degli altri, postazioni più fortunate, non perché, come a teatro, consentono di assistere meglio alla rappresentazione, ma perché, al contrario, sono vie di fuga che permettono di evadere più facilmente, come sottolinea il protagonista della novella Il professor Terremoto63. Nella novella Il viaggio, l’Adriatico si configura come la meta ultima del lungo viaggio intrapreso da Adriana Braggi. Ciò si traduce, in termini strettamente testuali, in un minor spazio e in una posizione, per così dire, periferica dell’Adriatico (inteso come spazio narrativo) rispetto al lungo racconto; viceversa, in assoluta centralità e importanza da un punto di vista simbolico, metaforico e narrativo proprio in quanto conclusione del viaggio e compimento del destino del personaggio. In questa novella l’autore riesce perfettamente a rappresentare il senso (o non senso) del viaggio moderno, attraversando – su di un treno – il confine che separa la vita dalla morte; è una novella in cui risulta decisivo il passaggio dal viaggio reale a quello simbolico, dalla dimensione oggettiva a quella soggettiva e introspettiva attraverso il ‘vissuto’ della protagonista – il viaggio nel viaggio – che conduce la rappresentazione al limite del visionario, del surreale, secondo quella linea di sviluppo diacronico che porterà al viaggio propriamente onirico di Una giornata (1936). D’altra parte, quella del viaggio nel viaggio risulta essere la dimensione-tipo dei viaggi ferroviari raccontati da Pirandello; dimensione che scaturisce dalla sovrapposizione tra il viaggio reale e orizzontale (compiuto dal treno) e quello immaginario e verticale realizzato nella mente del viaggiatore. Tale sovrapposizione non porta però ad una coincidenza, in quanto nel treno coesistono due realtà fondamentalmente dissociate: la realtà del treno che va cronologicamente e geograficamente verso una meta, e il viaggiatore nella cui mente tutte le categorie di spazio reale e di tempo cronologico si annullano, si disfano fino ad azzerarsi. Ecco perché treno e viaggiatore non coincidono: sono realtà vicine, correlate, entità metonimiche che però, paradossalmente, non si intersecano64. Così, il viaggio reale che il personaggio effettua in treno (un viaggio reale, peraltro, ricco di valenze simboliche e metaforiche), ingloba, o piuttosto viene inglobato dal viaggio mentale. La sensazione che accompagna Adriana Braggi durante il viaggio a Venezia – impressione assolutamente dominante e condizionante – è quella di percepire il mondo attraversato come un sogno, come «un incanto sovrumano» e quindi sovrareale, al punto da dubitare della consistenza, della verità dei luoghi e delle cose osservate: [...] Smarrita come un incanto sovrumano, a cui una certa angoscia le impediva di abbandonarsi interamente, l’angoscia destata dal dubbio che non fosse vero quanto vedeva, si sentiva lontana, lontana anche da se stessa, senza memoria né coscienza né pensiero, in una infinita lontananza di sogno.65 «[V]iaggio d’amore senza ritorno» e «viaggio d’amore verso la morte», si è detto; già, perché in qualità di «personaggio cometa», Adriana è destinata a viaggiare, ma è pure destinata «a cadere, a spegnersi, a morire durante o alla fine del viaggio»66. Secondo il collaudato meccanismo pirandelliano del paradosso, il suo viaggio è nello stesso tempo percorso inesorabile verso la morte e possibilità di vivere autenticamente per la prima (e ultima) volta, di lasciarsi trasportare dalle emozioni e dai sentimenti repressi per tanti anni, di essere e di consistere finalmente in se stessa, piuttosto che nell’immagine, nell’ombra, nello spettro di sé. È per questo che il viaggio per Adriana acquista un valore assoluto, molto più di un «ultimo e straordinario svago», di «un tenue compenso alla crudeltà della sorte», come vorrebbe il suo compagno di viaggio: Fu un delirio, una frenesia, a cui diedero una violente lena instancabile la brama di compensarsi in quei pochi giorni sotto la condanna mortale di lei, di tutti quegli anni perduti, di soffocato ardore e di nascosta febbre; il bisogno d’accecarsi, di perdersi, di non vedersi quali finora l’uno per l’altra erano stati per tanti anni, nelle composte apparenze oneste, laggiù, nella cittaduzza dai rigidi costumi, per cui quell’amore, le loro nozze domani sarebbero apparse come un inaudito sacrilegio.67 La scelta della protagonista di continuare il viaggio invece di tornare a casa, di farsi amante appassionata piuttosto che rientrare nella sua immagine di vedova e di madre, è assai rilevante. Per una volta il personaggio pirandelliano sembra scegliere l’essere e non l’apparire, e poco importa se questa scelta si debba pagare con la morte. D’altronde, si potrebbe obiettare, la sentenza è stata comunque emessa: la protagonista sa già che qualsiasi decisione prenda non potrà cambiare il proprio destino. Questa constatazione, tuttavia, non diminuisce il valore della scelta fatta: la maggioranza dei personaggi pirandelliani si sarebbe comportata in maniera diversa, non avrebbe trovato il coraggio di sottrarsi al ruolo preassegnato e avrebbe atteso l’inevitabile fine nel luogo, nella casa, nella realtà di sempre, «nelle composte apparenze oneste, laggiù, nella cittaduzza dai rigidi costumi», consumando gli ultimi giorni nella stessa esasperante monotonia, nell’identico stato di prigionia esistenziale. Adriana, invece, preferisce vivere piuttosto che vedersi vivere, decidendo così di trasgredire la norma esistenziale, di violare i tabù mentali e culturali che l’hanno tenuta inchiodata per anni. Se, rispetto alla massa dei personaggi pirandelliani, Adriana compie una scelta coraggiosa e può godere (sebbene per pochi giorni) della ritrovata autenticità e consistenza, non riesce però a reggere fino in fondo le conseguenze della sua decisione. Alla fine, infatti, anche lei risulta un personaggio sconfitto, schiacciato dal peso della trasgressione, della contravvenzione a uno schema di vita che non è possibile eludere. Le «composte apparenze oneste», i «rigidi costumi», l’«inaudito sacrilegio» prevalgono su qualsiasi tentativo di affermare la propria identità, di fuggire e di sottrarsi a ciò che siamo per gli altri. Ciò che vogliamo, ciò che davvero desideriamo e sentiamo sembra coincidere sempre con ciò che non è lecito fare o pensare, significa commettere un peccato originario da cui è impossibile redimersi. Non c’è possibilità di redenzione per l’individuo che ha peccato, non è previsto un ritorno per chi si è consapevolmente allontanato: Non poteva più ritornare laggiù, davanti ai figliuoli. Lo aveva ben presentito, partendo; lo sapeva che, passando il mare, sarebbe finita per lei. E ora, via, via, voleva andar via, più su, più lontano, così in braccio a lui, cieca, fino alla morte. E così passarono per Roma, poi per Firenze, poi per Milano, quasi senza veder nulla. La morte, annidata con lei, con le sue trafitture, li fustigava, e fomentava l’ardore.68 Una volta passata la frontiera (il mare), Adriana sa già che non c’è alcuna possibilità di ritorno. Ma è proprio in questa considerazione, in questo presentimento che si consuma la sconfitta del personaggio: l’impossibilità, infatti, non è oggettiva ma tutta soggettiva. Sono le categorie, le strutture mentali del personaggio a impedire il suo ritorno, è l’onta della vergogna per la follia commessa, è l’infrazione della norma, è la macchia nella coscienza, è – in ultimo – il soccombere dell’essere di fronte all’apparire, che lo impediscono. Adriana non può rivedere i figli perché essi hanno un’immagine di lei, l’immagine di madre e di donna ‘perbene’, un’immagine idealizzata che quel viaggio ha cancellato o comunque inquinato, alterato; e poco importa se quell’immagine non corrisponde alla realtà (a quella di Adriana), ma riflette solo quella degli altri. Un personaggio vincente Adriana Braggi lo sarebbe stata se, compiuto il viaggio, realizzata la fuga, consumato l’amore – intenso, per quanto breve, con il cognato – avesse varcato in senso opposto quella frontiera dalla quale era partita e avesse visto prima di morire i suoi figliuoli. Non ce la fa. L’unica preoccupazione è quella di allontanare il più possibile il nucleo di affetti, di ricordi e insieme la fonte delle frustrazioni e delle angosce, andare «più su, più lontano», viaggiando su quel treno notturno con a fianco l’Amore e dentro la Morte: L’ultimo giorno, a Milano, poco prima di partire per Venezia, si vide nello specchio, disfatta. E quando, dopo il viaggio notturno, le si aprì nel silenzio dell’alba la visione di sogno, superba e malinconica, della città emergente dalle acque, comprese che era giunta al suo destino; che lì il suo viaggio doveva aver fine. Volle tuttavia avere il suo giorno di Venezia. Fino alla sera, fino alla notte, per i canali silenziosi, in gondola. E tutta la notte rimase sveglia, con una strana impressione di quel giorno: un giorno di velluto. Il velluto della gondola? il velluto dell’ombra di certi canali? Chi sa! Il velluto della bara.69 Ecco, allora, il senso ultimo del viaggio in treno, ecco il suo valore epifanico-conoscitivo: superando una conoscenza per così dire formale, andando oltre la consistenza fisica e oggettiva del proprio percorso, la protagonista «cieca», «quasi senza veder nulla», perviene all’essenza stessa dell’esistenza, fa esperienza di quei poli entro cui si compie il viaggio di ogni individuo: Vita, Amore, Morte. In questo passo c’è tutto (o quasi) Pirandello: lo specchio, l’oltre del personaggio, il tema dell’identità, il silenzio, lo spazio reso attraverso la rappresentazione di un mondo oscillante tra sogno e realtà, in un’atmosfera densa di lirismo e simbolismo e, appunto, il motivo del viaggio. Il momento narrativamente decisivo per il personaggio si concretizza, iconograficamente, attraverso due immagini: lo specchio in cui la protagonista «disfatta» non si riconosce e «la visione di sogno, superba e malinconica, della città emergente dalle acque». Queste due immagini-visione realizzano la piena presa di coscienza di Adriana, la consapevolezza-certezza della morte. Il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti avviene mediante il viaggio notturno, che sembra quasi rovesciare la tradizionale antitesi buio-morte/luce-vita, perché è «nel silenzio dell’alba» che il personaggio capisce di essere «giunta al suo destino, che lì il suo viaggio doveva aver fine». Specchio e acqua, oltre ad essere accomunati dalla capacità di riflettere e deformare (il che, trattandosi di immagini pirandelliane, implicherebbe l’attivazione di un immaginario sterminato di simboli, riferimenti e considerazioni) sembrerebbero giocare, nell’economia del testo, il medesimo ruolo di anticipazione, tracciando idealmente un percorso-struttura circolare della novella. Si potrebbe parlare del viaggio di Adriana come di un viaggio tra due specchi (secondo, appunto, un vero e proprio gioco di specchi), giacché ritroviamo lo specchio anche all’inizio della novella, prima di partire: «[s]i sentiva già vecchia: si ritrovò d’un tratto in quello specchio, giovane, bella; un’altra»70. In entrambi i casi il personaggio non riconosce la propria immagine riflessa. Tuttavia, il senso del non riconoscimento di sé è profondamente diverso, come la funzione svolta dallo specchio. Se, infatti, in entrambi i casi il personaggio non si riconosce, c’è però una sorta di rovesciamento della funzione epifanica nel passaggio da uno specchio all’altro. Il primo è rivelazione della vita dietro le forme-sembianze dell’apparire; il secondo della morte dietro quelle dell’essere. Prima di partire Adriana ritrova nello specchio la donna giovane e bella che si nascondeva sotto la maschera di quella vecchia e poco attraente, e la ritrova perché si sente vecchia, si sente morta. Alla fine del viaggio, invece, si vede allo specchio «disfatta» e non si riconosce «col pallore della morte sul volto», perché non si era mai sentita così bella, così viva. In entrambi i casi lo specchio riflette un’altra Adriana, un’Adriana opposta e lontanissima rispetto a quella che lei sente e percepisce in quell’istante: in morte (o non vita) ritrova la vita, in vita riconosce lo spettro della morte. L’immagine della città lagunare emergente dalle acque è altrettanto complessa – forse più suggestiva –, perché evoca un vasto immaginario archetipico, richiama un’atmosfera ancestrale e primordiale. La visione di una Venezia emergente dalle acque, simile a una nave fantasma o a un mostro marino, sembra alludere ad un rito iniziatico di rinascita, assumendo quindi un significato sostanzialmente opposto rispetto a quella morte che attende la protagonista. Ma la simbologia legata all’acqua è notoriamente molto complessa, e può rinviare a interpretazioni persino antitetiche. Se, infatti, l’acqua è il simbolo della vita e della nascita per eccellenza, è nello stesso tempo il «doppione sostanziale delle tenebre», la «sostanza simbolica della morte»71. Questa seconda simbologia allude, evidentemente, allo stato psichico del personaggio, è la proiezione del senso di morte che lo pervade. La dimensione onirica, allucinata e quasi surreale tende a sovrapporsi e, alla fine, a prevalere su quella reale: è il trionfo dell’aspetto onfalico dell’acqua. Un trionfo confermato dalla strana impressione che accompagna il personaggio per tutto il giorno: «un giorno di velluto». Questa singolare analogia, l’ambiguità di questo sostanziare tutto ciò che vede – gondola e ombra dei canali – in qualcosa (il velluto) non immediatamente riconducibile ad un significato preciso, sarà alla fine risolta – in senso macabro – nell’immagine di un velluto inequivocabile: quello di una bara. Ma tra la vita e la morte c’è un altro aspetto caratterizzante l’acqua: quel divenire eracliteo secondo cui nessuno può bagnarsi due volte nello stesso fiume. L’acqua, nel suo moto costante, rimanda all’idea dell’inarrestabile fluire delle cose, dell’impossibilità di arrestare il tempo e, quindi, di sottrarsi alla morte; come, si direbbe, la fissità della Forma che pirandellianamente uccide il flusso della Vita. L’acqua «viene ad essere la vera materializzazione della transitorietà dell’esistenza, […], la materia del movimento, del viaggio, ed il viaggio per eccellenza è quello che conduce al dominio ultraterreno»72. Ecco, quindi, la scelta di Venezia, città dell’acqua per antonomasia, come ultima tappa del viaggio: l’acqua, nella triplice accezione di vita-divenire-morte, riesce perfettamente e istantaneamente a rendere il senso del viaggio di Adriana, «personaggio cometa» per il quale, secondo Zangrilli, la scelta di Venezia come tappa conclusiva del viaggio, «è pienamente consapevole» e simbolicamente “giustificata”73. Ma a questa spiegazione, per così dire, extratestuale, che si basa cioè sull’assunzione del tópos dell’acqua nelle varie accezioni che la tradizione le ha assegnato, si affianca una spiegazione interna al testo, particolarmente rilevante in quanto si tratta di un’anticipazione dell’immagine finale e del significato che il viaggio assumerà per la protagonista. Mi riferisco alla «fontana d’Ercole» che, all’inizio del viaggio, innesca con la sua «acqua vitrea» una sensazione in cui è racchiuso tutto il senso del viaggio, prefigurando quella complessa simbologia dell’acqua con cui termina il viaggio stesso: […] chinandosi a guardare l’acqua vitrea, su cui natava qualche foglia, qualche cuora verdastra che riflettevano l’ombra sul fondo; e poi, a ogni lieve ondulio di quell’acqua, vedendo vaporare come una nebbiolina sul volto impassibile delle sfingi che guardano la conca, quasi un’ombra di pensiero si sentì anche lei passare sul volto che come un alito fresco veniva da quell’acqua; e subito a quel soffio un gran silenzio di stupore le allargò smisuratamente lo spirito; e, come se un lume d’altri cieli le si accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì d’attingere in quel punto quasi l’eternità, d’acquistare una lucida, sconfinata coscienza di tutto, dell’infinito che si nasconde nella profondità dell’anima misteriosa, e d’aver vissuto, e che le poteva bastare, perché era stata in un attimo, in quell’attimo, eterna.74 È questo il passo centrale della novella, la sua Spannung, perché è in questo momento che si raggiunge il vertice narrativo-poetico-esistenziale e il personaggio trova la soluzione di sé. Di fronte al piccolo specchio d’acqua Adriana riconosce, o meglio, conosce finalmente se stessa, acquista coscienza di sé prima che «di tutto» e «dell’infinito», attinge per un attimo all’eternità che non vuol dire vivere eternamente ma, semplicemente, vivere almeno per una volta75. È questa presa di coscienza suggerita, innescata dalla visione dell’acqua ad informare la narrazione e a conferire quel valore assoluto al viaggio; così come il rito iniziatico ed epifanico che si compie davanti a questa fontana sembra anticipare quello che si realizza alla fine della novella, nell’immagine di Venezia emergente dalle acque76. Dalle considerazioni fatte a proposito della novella Il viaggio potrebbe apparire contraddittorio ciò che invece è l’ambiguità, la complessità tipica del messaggio narrativo pirandelliano; e cioè la constatazione della autenticità del viaggio di Adriana a fronte della sostanziale sconfitta del personaggio. Non solo la prima non inficia la seconda (e viceversa), ma le due affermazioni si determinano implicitamente e necessariamente a vicenda. Sull’autenticità di questo viaggio non ci sono dubbi, perché è il mezzo attraverso cui il personaggio perviene alla scoperta di sé, alla propria epifania, e il valore aggiunto di questo viaggio – la sua autenticità – pone certamente Adriana Braggi su un livello superiore rispetto a tanti altri personaggi pirandelliani: il suo non è un viaggio mancato o improntato all’illusorietà della fuga impossibile77. Tuttavia, il non ritorno, la scelta consapevole del non ritorno denuncia, come detto, la sconfitta del personaggio, che da questo punto di vista è assimilabile ai tanti sconfitti pirandelliani. Il paradosso che lega indissolubilmente considerazioni apparentemente incompatibili si consuma nella constatazione che è proprio l’autenticità ritrovata a impedire e negare il ritorno: se Adriana fosse ritornata a casa sarebbe stata un’Adriana completamente diversa rispetto a quella che era partita, sarebbe stata una donna che i figli, proprio in virtù della sua autenticità, non avrebbero riconosciuto. Lo spettro della mancata agnizione porta dunque la protagonista a soccombere sotto il peso di una colpa irredimibile e insolubile: quella di aver vissuto. Il suicidio della protagonista non è condannabile come gesto in sé, cioè come atto di vigliaccheria nei confronti della vita e umanamente inaccettabile nell’ottica di una madre che abbandona i propri figli. Lo diventa, però, nella valutazione del movente, nella natura per così dire pirandelliana del gesto estremo: pur avendo la possibilità oggettiva e concreta di rivedere i figli al termine del viaggio, anche lei viene sconfitta dalle apparenze che regolano l’esistenza e preferisce lasciare agli altri l’immagine (falsa) di madre e vedova ossequiosa, piuttosto che rivelare quella autentica di donna che nutre delle passioni, di donna che sa ancora amare e vivere, che è riuscita finalmente ad esprimere ciò che per troppo tempo è rimasto inespresso dietro la maschera del perbenismo. D’altra parte, una volta fatta esperienza dell’oltre, una volta riemersi da quest’oltre, e dopo aver, umoristicamente, «capito il gioco», non si è più gli stessi e non si può rientrare nella vita di prima. In questo senso tutto pirandelliano Adriana è parzialmente giustificabile, assolvibile, pensando che, nel sistema pirandelliano, dopo aver scoperto l’autenticità è difficile, anzi impossibile tornare alla finzione, non si può dare importanza o portare rispetto alla vita di prima: In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali […] ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme dell’umana ragione. […] È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose e misere apparenze.78 Si tratta dell’attimo di eternità provato da Adriana Braggi di fronte alla fontana, un attimo talmente lungo da durare per l’intero viaggio, talmente determinante da segnare la sua esistenza, da porla davanti ad un bivio, morire o impazzire: la scelta è nota. Il suo suicidio è più inquietante – e questo rafforza il senso della sua sconfitta – rispetto, ad esempio, all’analogo gesto compiuto da Didì ne La veste lunga, «perché rappresenta la sconfitta totale sorta dalla coscienza che non c’è, o non sembra potervi essere liberazione»79. La novella Il viaggio è certamente uno dei racconti pirandelliani più rilevanti e significativi per la complessità e la centralità dei motivi che informano la narrazione. Si è già parlato della scelta, da parte dell’autore, di concludere il viaggio della sua eroina a Venezia, delle motivazioni e delle implicazioni che tale scelta comporta. Ma è opportuno anche sottolineare come l’importanza della città adriatica sia accresciuta da una considerazione riguardante l’atteggiamento del narratore nei confronti di Venezia, di quello che, in questa sede, rappresenta l’emblema e la sintesi dell’intero Adriatico: il fatto di indugiare, di rallentare e di soffermarsi esclusivamente su questa città, sorvolando, accelerando e tacendo su tutte le altre tappe del viaggio. Queste ultime sfilano via velocemente, attraverso una scarna nomenclatura, Roma Firenze Milano, oscurate da un velo di indifferenza, citate quasi per dovere di cronaca (cronaca di un viaggio); nomi, neanche immagini, sbiaditi e inghiottiti dalla fretta del narratore, dalla sua necessità di concludere il viaggio80. Venezia, invece, si staglia imponente sopra di esse, emerge dalla acque, si fa visibile alla fine del viaggio; eppure la sua invisibile presenza si avverte durante tutto l’itinerario, attraverso sensazioni, presentimenti e, in maniera più emblematica e evidente, attraverso l’iniziale contrastante immagine di un’arida «cittaduzza dai rigidi costumi». Si potrebbe obiettare che l’ultima tappa di un viaggio sia inevitabilmente quella che più attira l’attenzione del narratore (e del lettore), quella che implica la necessità di fermarsi e soffermarsi. Eppure, tale obiezione si indebolisce di fronte a un viaggio e un viaggiatore pirandelliani, perché quelli dell’autore agrigentino sono novelli viaggiatori, individui che non hanno mai visto, mai conosciuto, mai viaggiato; persone recluse nella loro esasperante monotonia, in cui la consuetudine (geografica ed esistenziale) costituisce l’unico possibile riferimento. La smania, l’eccitazione, la meraviglia di Adriana dovrebbero quindi essere alimentate oltremisura dall’attraversamento di esotiche metropoli di cui forse ricordava vagamente soltanto il nome. E invece tutto si riduce ad una fredda registrazione: prima Palermo, poi Napoli, quindi Roma, Firenze e infine Milano. Eppure i due compagni di viaggio si fermano a Palermo e poi a Napoli, ma mai una parola, un cenno sulle città viste81, il che è ancora più sorprendente quando città come Roma, Firenze e Milano vengono attraversate «quasi senza veder nulla»: E così passarono per Roma, poi per Firenze, poi per Milano, quasi senza veder nulla. La morte, annidata in lei, con le sue trafitture, li fustigava, e fomentava l’ardore.82 Come il narratore, anche i personaggi sembrano aver fretta di raggiungere il luogo prescelto, quella improbabile e irripetibile città che non si affaccia semplicemente sull’Adriatico, ma che è dentro l’Adriatico, è parte integrante, l’essenza, visceralmente e indissolubilmente legata ad esso. Adriana ha fretta di raggiungere l’alcova, amorosamente e macabramente allestita da Eros e Thanatos; ha fretta di unirsi all’Adriatico, di perdersi e annullarsi in un mare che non è più mare, ma un’indefinibile entità, un richiamo irresistibile, l’espressione di una sorta di «attrazione regressivamente erotica per la morte»83. Si tratta, evidentemente, di una strategia narrativa che intende rafforzare il valore di Venezia quale ultima tappa, non tanto del viaggio di Adriana, quanto della sua stessa vita; perché Venezia è la città delle acque, la città che unisce il senso di purificazione e quello di disfacimento. Per la novella-simbolo del motivo del viaggio, dunque, Pirandello sceglie l’Adriatico. Adriana, Adriatico: un’assonanza forse non involontaria, se è vero che nell’autore agrigentino i nomi sono sempre parlanti, alludono a qualcos’altro, valgono più di semplici riferimenti onomastici. L’Adriatico, quindi, legittimamente, come uno dei centri del proteiforme universo geografico e poetico di Pirandello. NOTA BIBLIOGRAFICA L. PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii, a c. di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 19935; ID., Novelle per un anno, a c. di M. Costanzo, premessa di G. Macchia, «I Meridiani», 3 voll., 6 tomi, Milano, Mondadori, 1985; ID., Tutti i romanzi, a c. di G. 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