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IL GUARDIANO DEL FARO DI PUNTA PALACIA



Ormai manca poco.
Già le montagne del'Albania vengono forgiate nella sottile linea di fuoco che si staglia all’orizzonte. Una fila di tizzoni ardenti che illuminano il cielo mattutino incendiando la vista e offuscando le ultime stelle.
Non c’è nessun’altra luce nel cielo. È un’immensa sfera d’un blu cupo. Cieco. Neanche il lume del faro turba la sua austera pienezza: non è in funzione. Ma quelle fiamme sottili crescono ogni secondo che passa. S’alzano e irrompono nella tranquillità dell’aurora. S’arrossano, s’arroventano, bruciano dal desiderio d’esplodere in folgori scarlatte per infuocare la calma celeste.
Ma allo stesso tempo sembrano debolmente stemperare in questo tratto di mare che s’apre tra le due terre. Il fervore esplosivo dei monti s’immerge, si mescola all’eterna lotta delle onde, al rimestarsi delle acque, al cozzare delle correnti. Come un campo di battaglia, il mare si tinge di rosso.
Ed io sono proprio lì davanti. Da quassù è tutto così vicino. Eppure ogni lembo di pelle si ritira sotto le raffiche della brezza mattutina che s’infiltra tra gli abiti estivi.
Il sangue fluisce e ribolle da ogni ferita che s’apre spumosa nello specchio marino. Un’insondabile massa vitrea le cui lastre aguzze, taglienti sporgono dalla superficie. Si muovono, si puntano, si speronano coi loro rostri acuminati. Ed ecco il fragore dell’impatto seguito da un fiotto cristallino reso più vivo dal color del mattino.
E il sangue continua a colare. Scivola come un serpente tra i relitti oramai in frantumi avvolgendoli stretti nelle sue rosse spire. Ogni conflitto che si spegne, ogni nuova piaga che trasuda i suoi freddi umori ne muta la forma e gli fa dono di nuova forza. E così scava il suo percorso, andando avanti come un solco, una crepa, così profonda che quello specchio d’acqua salata sembrerebbe esser lì lì per spaccarsi in due liberando le tensioni che lo tengono insieme e detonando in una scrosciante cascata di cocci di bottiglia.
Ma per il momento il solo boato che s’ode è il fracassarsi lontano di una miriade di velieri di cristallo frammisto alle grida scomposte dei loro equipaggi trasparenti che vaporizzano nell’aria gelida. Quello, insieme al grido più prossimo delle ultime frange marine che, a guisa di testuggine, si scagliano contro la cornice petrosa che, milioni d’anni or sono, sorse dal suo grembo fangoso. In queste prime ore del mattino scintillano riflessi bronzei. È un lungo e scosceso diadema che cinge il mare da ponente, cosparso di guglie scagliose e smusse e disseminato dalle anfrattuosità delle ormai perdute gemme coralline. Una magnifica corona che dona maestà regale a questo stretto tratto di mare.
Eppure le legioni dei piccoli uomini di spuma vi si scagliano contro a più ondate. Uno dopo l'altro, i plotoni si rigonfiano nel loro fiero e assordante gorgoglìo di battaglia. È un suono che gratta, scava, risucchia tutto ciò che si trova intorno: fame. Il mare sembra afflitto da una voracità così feroce che avrei paura di venirne inghiottito se non mi trovassi quassù in alto.
Lo schianto improvviso, rapido e vibrante come un colpo di frusta, dell’onda che s’infrange sulla scogliera mi ridesta dal timore. Ecco migliaia e migliaia di minuscoli scudi sfondati e spade spezzate schizzare per aria insieme alle piccole e ormai sgraziate membra di quei legionari così affamati da rifiutare qualsiasi limite alla loro ingordigia.
Il bollore violento della luce dona a quel che resta dei piccoli soldati d’acqua marina una dimensione di dolore più umana. Gocce rosse di spuma macchiano il bronzo lucente della scogliera. I castoni si riempiono nuovamente di rubini mentre le guglie scabre vengono accarezzate dalle anse sinuose del lungo serpente. Macchia il mare in ogni suo frastagliato riflesso ed ora, sospinto dalle onde, tinge il bianco della torre col sangue dei vari conflitti. Simile ad una goccia che cola, la testa scivola e serpeggia sfidando però ogni legge fisica, procedendo così in un lunga scalata che ha termine con il poggiare del suo lucente capo sulla balaustra della sala della lanterna. Quando il suo bagliore incontra i miei occhi.
Abbagliata da un rossore che non scalda, la mia pelle trascolora freddamente. Un pennello immaginario mescola il rossore diffuso tra terra e mare col rosa pallido della mia pelle. Diviene lentamente parte di quel dipinto che, come un marchio rovente, mi s’imprime sfrigolante sulla retina. Ma i tratti sono rapidi e confusi. Riempiono la tela di vampate di colori accecanti, sfumature rossastre che in ampi mulinelli abbracciano le varie tonalità dei blu del cielo e del mare ed adesso, anche, il pallore della mia carne e le tinte dei vestiti. Sono spettatore ed allo stesso tempo parte di un dipinto che non esiste se non nei miei occhi.
Vedo ghiacciai in fiamme e foreste bruciare senza che un singolo ramo muti in cenere. Brucia l'immagine come un'ustione, ma la pelle si stringe nella morsa del freddo, seppur luminoso, rettile. Le braccia si stringono invano al petto nel tentativo di trattenere un po' di calore. A sua volta il freddo restringe velocemente i lembi della piaga fermandone la fuoriuscita di liquidi. E così il disegno si fa sempre più nitido dentro di me. Finalmente capisco cosa ci faccio qui a quest’ora.
“… perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non hanno una seconda opportunità sulla terra”.
Intanto le fiamme divampano sempre più alte sulle cime montuose, minacciando sempre di più il lembi della tela del cielo. La sottile linea rossa all’orizzonte diventa lentamente una vasto alone vaporoso che illumina i rilievi su cui aleggia. Sono come bruciati del tutto. Appaiono d’un bruno scuro e compatto, colore di terra riarsa. Ma l'ammasso dei vari metalli, sepolti nelle loro profondità, ribolle furente per l'incendio sovrastante. Pare ora fuoriuscire come magma da una fenditura nel mezzo della catena montuosa. Si staglia come una sottile patina lavica d’un rosso così rabbioso e vivido che le fiamme d’intorno impallidiscono immediatamente. È come se tutto quello che avessi mai percepito come “rosso” non fosse altro che una blanda e mal riuscita imitazione di questo splendente ribollire di rabbia vulcanica.
Erompendo da un’unica fessura, si espande per un tratto orizzontalmente sulle cime adiacenti, come se volesse da lì infiltrarsi tra i solchi e le crepe dei vari massicci montuosi per poi gettarsi in mare stemperando in alti sibili e colonne di fumo. Invece, le gocce di metallo si addensano così che quella lamina diviene sempre più voluminosa. Continua a gonfiarsi nel suo confuso ribollire divenendo una gigantesca bolla pronta ad esplodere scaraventando ovunque i suoi lapilli roventi e lacerando l’ormai tardivo sudario notturno. Ma il magma continua imperterrito a gonfiarsi e a ribollire finché dalle montagne non viene dato alla luce un nuovo sole.
Compiuta la loro opera procreatrice, come svuotati del loro fervore, i monti si spengono definitivamente per tornare ad essere un cumulo di scure pietre. Il fuoco che le ravvivava s'irradia in ogni direzione come dardi incendiari violando il grembo celeste ora piagato da vaste ustioni color del sangue. E il sole novello arde di nuova sfolgorante vita. Nato dai rilievi dell’est, sembra continuare a partorirsi da solo incessantemente. La massa ribollente di materiale fuso che lo anima s’agita senza sosta nel suo nucleo, continua a colare sulla superficie. Non c’è un attimo in cui mostri la stessa faccia, come non c’è un attimo in cui la sua vista non sia sublime. Un lavorìo così armonioso e perfetto il mare, con la sua voracità, non potrà mai carpirlo. Potrà solo limitarsi, proprio come adesso, a disperderne lo splendore nelle migliaia di riflessi dorati offerti dalla miriade di frammenti e schegge che ne compongono la superficie.
Le spire cominciano ad allentare la presa. Il bagliore del serpente s'affievolisce lentamente fino a sparire del tutto. Le mani sono le prime a rendersene conto. Poi le guance e il naso si rilassano. Infine, il petto si espande in un dolce torpore. Eppure ancora non basta. Tutto questo non basta per sciogliermi le gambe o disperdere la brina cristallizzata nelle vene. Se solo fosse possibile vorrei essere ancora più vicino a quel sole ora nato. Vorrei poterlo solamente toccare. Ma fra me e quella calda speranza c’è una distesa sconfinata, un mare di vetri aguzzi.
In poco tempo il focolaio celeste va estinguendosi. Le ferite, coperte da veli di nubi cosparse d’oro, sfumano nei toni d’un rosa tenue mentre il cielo è intessuto d’una nuova e più leggera trama.
Oramai manca poco.
I falchi si libreranno immobili nell’aria a caccia di facili prede. Piccoli grilli e bianche farfalle s'aggireranno tra gli arbusti e la sterpaglia tentando d'evitare le sottili trappole che i ragni tendono tra un ramoscello e una pietra. Il belare scomposto delle pecore riecheggerà dai pendii vicini. Poi i pescatori scenderanno con le loro attrezzature e il mare si riempirà delle rumorose imbarcazioni dei turisti. Il traffico di auto e di camper sulla strada sopra la scogliera si farà sempre più frenetico e il trambusto dei motori terrestri farà eco a quello dei cugini marini. Infine arriveranno i visitatori.
Oramai manca poco, ma ho ancora il tempo di contemplare ciò che ho visto questa mattina: il cielo medicato, il mare nella sua frastagliata battaglia, la scogliera povera di gemme ma ricca qua e là di cardi e piante di cappero. Un ultimo sguardo ed un ultimo pensiero al sole.
È il tempo di un respiro in un attimo di quiete apparente. È l’ultimo respiro prima dell’apnea, denso delle preoccupazioni per il futuro. Non esiste la quiete per chi vive aspettando il sorgere del sole. Respiro e mi volgo indietro: sulla scogliera non v’è ancora anima viva.
Sola una piccola volpe risale silenziosa il sentiero verso la tana.
È ora di tornare a lavoro.

Marco Basset

[per maggiori informazioni su Punta Palascia, vd scheda tecnica]

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