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Guido Baldassarri - Viaggio in autostrada

 

 

18.
 
 
«Non fatemelo dire, non lo so: ma stiamo arrivando al confine orientale»,
dice la sentinella di guardia all'autista, perché non si addormenti:
il che vuoi dire Trieste, dopo qualche impiccio burocratico
nel passaggio della frontiera (Austria? Slovenia? Croazia?
5      ex Jugoslavia? Da dove veniamo, dove andiamo? Non sono cose
da dichiarare semplicemente su un modulo; ce lo chiediamo, come tutti,
da qualche migliaio di anni, per lo meno). Ma poi è andata bene.
Così, ci pappiamo nel transito una veduta da togliere il fiato,
golfi e coste e mare e montagne, dall'alto,
10    a tre dimensioni: non una finzione geografica
a scopi didattici, come nelle carte, ma i corrugamenti
in altezza del globo terrestre, o terracqueo, come dicevano
gli antichi pedanti: acqua e terra, in effetti, e a tagliare
la scena una luce cruda, che mette in rilievo
15    le rocce, gli alberi, piccole figure umane
sulle strade e sul mare. Saltiamo le città, almeno per ora, e,
nonostante Rilke, il castello
di Duino: l'abbiamo già visto, ed è un luogo, come tanti,
che vive piuttosto nella nostra immaginazione,
20    meglio, nel ricordo di certe letture. Ma qui i cieli
dell’alta Italia hanno una bellezza, sobria, rispetto al Sud,
ma, in confronto all’Europa, opulenta
e melanconica, come una donna troppo bella:
e nel venire della sera, due tonalità soltanto, il bianco e il grigio,
25    che si stendono dietro noi nel cielo, sulla strada,
come la scia di un aereo ad alta quota che taglia il paesaggio:
ma non è un bianco e nero, solo colori
elementari, essenziali, per la stagione e per l’ora,
una pellicola adatta al nostro viaggio
30    che tutti ci comprende, e ci accompagna al riposo.
Nell’ombra, passiamo fiumi, e ponti, dai nomi leggendari,
e, come nel mito, i corsi d’acqua si animano, levano il muso
nella notte nascente, poi tornano a giacere
dopo il nostro passaggio, acque nere, acque luminose,
35    a seconda dell’occhio che guarda, della prospettiva delle nostre luci.
Dormiamo in Veneto. La mattina, quando riprendiamo il viaggio,
imbocchiamo strade secondarie, ci perdiamo, per quanto è possibile
in spazi cosi ristretti, e, senza badare al traffico,
ci dirigiamo verso Adria, per luoghi che, come in tutta l’Italia,
40    associano con violenza passato e presente, e il banale col bello.
«Guarda che insegna!», dice fra noi il più dotto,
che ci vuole convincere che sia, quella, una metafora dell'esistenza,
o piuttosto del mondo; «fratelli Vitulo, è la ragione sociale,
e polleria allo spiedo, è la loro attività».
45    «Non ci pare gran cosa», replichiamo per fargli dispetto, ma inutilmente,
perché già la macchina si è fermata, non per fotografare un paesaggio,
ma, semmai, un’assenza: è una serena
maschera di cancello, e di fontana, sul muro:
tutto il resto, la villa, i prati, gli alberi,
50    la campagna, è venuta meno, sparita: un angolo
del giardino delle delizie si è fatto, a tutti gli effetti, periferia.
Va bene lo stesso, ed è meglio di niente: una versione
aggiornata delle finestre, degli archi, che un tempo
architetti oziosi, e intelligenti, aprivano, all’aperto, sul nulla,
55    a incorniciare il ciclo, che infatti meritava
una segnalazione, una messa in evidenza:
per la crescita dell’anima, e dello sguardo, quanto meno.
Così, torniamo indietro, arrivati all’acqua,
in cerca di monti che sono colline, da queste parti,
60    di orridi, di canyons, che ci sono, e che ai nostri padri
cioè ai nonni dei nostri nonni suscitavano nel cuore
sensazioni piacevoli di terrore, di sublime dinamico,
persuasi (e persuase) di vivere m una bella terra
a prudente distanza da una natura che poteva essere pericolosa.
65    Se no, che pittura sarebbe potuta nascere da queste parti,
solo all’insegna del preciso, del pulito, del bello,
senza il battito del cuore che accelera, la vertigine
per aver perso il punto di riferimento, il controllo
del proprio spazio. Inutile, adesso:
70    un intero modo di guardare all’Italia è venuto meno,
e sono piccoli gli alberi, in miniatura i fiumi, i salti,
salvo nei luoghi deputati dalle guide turistiche;
e il mondo si è rovesciato anche qui, uno spreco, un gigantismo
delle possibilità del pianeta che non lasciano spazio al sogno, alla fantasia,
75    e riduce il sublime a un orrido da Lilliput,
       lezioso, persino. Anche il paesaggio intatto, o quasi,
si consuma, se l’occhio è sovraccarico. Però, in uno spazio così piccolo,
se ne va, di tempo, anche a voler superare la velocità consentita.
Alla ricerca di un riparo (è tornata la sera, senza che ce ne accorgessimo),
80    attraversiamo una città, quasi una capitale,
e posiamo l’auto, per un giro a piedi, breve,
all’ombra, si fa per dire, di due chiese
che ne racchiudono parte non trascurabile della storia,
non affrontate, al contrario, non sulla stessa retta,
85    e distanti, in linea d’aria, qualche decina di metri.
Siamo premiati, anche da queste parti. Traversiamo una piazza immensa,
con lentezza, proprio nel momento
in cui una particolare situazione meteorologica
ci regala un tramonto che non è proprio usuale da queste parti,
90    fontane di luci fra le nuvole, e in successione i colori
dei climi freddi e caldi mescolati insieme,
metalli e fuochi che si allargano a dismisura
come su orizzonti aperti, nel cuore di una città.
Fare foto non è il caso, è bello esserci.
 95   Come diceva un maestro ai suoi alunni,
si fa presto a dire rosso, verde, giallo, viola.
E le sfumature, e gli angoli, e gli interstizi
delle campiture di colore, le sovrapposizioni, gli incroci,
il mutare nel tempo, col modificarsi delle nubi?
100  E infatti, ecco la lezione, uno di noi ce la impartisce,
incurante dell’ora, della nostra stanchezza. È dell’opinione,
lui, che si vive, e si viaggia, per imparare qualcosa:
falso, lo diciamo noi che abbiamo esperienza. Ma, stavolta,
ha quasi ragione: lo assecondiamo per pigrizia.
105  «Il problema della descrizione», dice lui, «fa tremare le vene e i polsi
a tutti quelli che sanno scrivere, e che sono smaliziati.
Vuoi essere preciso? Finisce che divieni pedante,
e i tuoi lettori non ti seguono: anche perché più di due idee alla volta,
sensazioni, se preferisci, non riescono a coglierle.
110  Abbrevi? Sei inefficace, e l’evidenza
raccomandata dai maestri dell’arte ti resta impraticabile.
La soluzione non c’è, come in tante cose: al massimo,
evita come il peccato le occasioni prossime, o raccomàndati
a Dio, se proprio non se ne può fare a meno. Non ti consiglio gli scorci:
115  fa invece in modo che il lettore ti sia grato per un breve accenno
che sembri esaustivo». Appunto, come la sua cicalata.
Ce ne andiamo a letto, che è meglio. Il sonno
       non si fa tanti scrupoli, lui, non segue
in apparenza un filo logico, eppure
120  da qualche parte dev’essere nata l’immagine che ci perseguita,
non tutti, naturalmente, ma uno basta.
Tramonto? Visione? Chissà, un presagio, ancora un presagio.
 
 
20.
 
 
«Da quando mi trovo sul fondo di questo mare disseccato,
che ancora da conchiglie, a cercarle, testimone
di eventi inconcepibili, per la mente umana,
che solo la pigrizia ci impedisce
        5    di correlare con la nostra piccolezza, la nostra vita effimera,
             neanche la morte, in qualunque forma, può ingenerarmi spavento».
Mente, è ovvio, l’amico, appoggiato in vesti non tragiche,
ma quotidiane, e dunque falsamente persuasive,
allo stipite della casa sulle Dolomiti, dove siamo nel frattempo giunti,
10  grazie al mecenatismo corporativo
delle compagnie di assicurazione, che serve a poco
se nell’incidente ci lasci la pelle, ma molto, invece,
se sopravvivi, e sei talmente furbo da voler ritentare la fortuna
su una macchina nuova, che si chiama pomposamente di cortesia:
15  quando la cortesia sarebbe andare a piedi, a dorso di mulo,
nel deserto, con molta acqua, anche in motocicletta,
o persino in auto, ma piano, e quando il traffico è moderato.
Mente, l’amico, con la migliore buona fede,
perché, come tutti, in punto di morte
20   si preoccuperà assai poco della catastrofe cosmica
della scomparsa dei dinosauri, e parecchio di più della propria vecchia pellaccia
(vecchia, vecchissima, speriamo, a conferma del suo successo evolutivo
che a quel punto gli risulterà abbastanza inutile).
Intanto, eccolo qui, eccoci qui: la mattina è clemente,
25   sole sulle rovine sarebbe un’esagerazione, un oltraggio, e ci sta bene
che quel preistorico mare, che ha fatto lodevolmente il suo mestiere
per venti o trenta milioni di anni, con bufere, tempeste e calme piatte,
qualche eruzione sottomarina apocalittica
che ha suggerito la fine del mondo agli occhi
30   non molto precisati che hanno potuto vederla, magari un attimo prima di morire,
si sia dignitosamente ritirato, abbassato, evaporato,
tra fumi salmastri e (prevedibilmente) montagne di sale
alte un chilometro e mezzo, mettendo a nudo
(senza alcuna volontà di esserci favorevole)
35   barriere coralline, atolli, scarpate oceaniche
che adesso è piuttosto bello vedere dal basso in alto,
di colori vari, a seconda della luce, delle nuvole
e della stagione, in veste di montagne incantate.
Un che di marino è rimasto nell’aria:
40   sono i colori della porta di casa, la trasparenza dei cieli,
che invitano, nonostante l’autunno, a leggere
come dimora provvisoria, non solo per noi, grazie ai legni,
il luogo dove ci siamo svegliati, parecchio dopo l’alba,
abbiamo fatto colazione, a piedi nudi, maschili e femminili,
45   e poi abbiamo steso le sdraio, a prendere il sole,
con opportuno corredo di cappelli di paglia e di occhiali scuri.
Non è un’isola tropicale, ma poco ci manca. In assenza di un fotografo,
che ci immortali discinti (discinte), con in mano un bicchiere
e liquidi di colore improbabile, maracuya, curaçao blu,
50   chartreuse verde e gialla, ci contentiamo della musica,
fatta in casa, letteralmente. E la nostra amica bionda,
che dà dimostrazione delle sue competenze, apprese nella tarda infanzia
(malissimo) e mai andate oltre la prima adolescenza, al piano,
dove ora, sgranando un po’, fa riemergere dai suoi ricordi,
55     in versione facilitata, Per Elisa, che, anche così, ci sta bene,
      fornisce la colonna sonora adeguata a questo giorno, a quest’ora:
e poi lei, non la musica, è così bella
da far venire le lacrime agli occhi, mentre ci regala,
ora e sempre, per quanto è possibile, se stessa,
60   mettendoci a disagio, per la nostra stupidità, per il fatto di essere così ciechi
(non sempre, ventidue ore al giorno, si spera per molti anni)
di fronte alla vita, di fronte al lampo
della sua, della nostra vita,
ora e sempre discutibile, a patto di farla a pezzi, di perderla,
65   non fosse, com’è, di sua natura così breve: e splendida.
E quanto alla mimosa, di qualche giorno fa, e quanto alla botta
in autostrada, ieri: ci hanno fatto bene,
per una legge di tipo fisico difficilmente interpretabile,
ma che non si può negare, visti i risultati. Abbiamo, tutti,
70  dimenticato la seconda, ma la prima, oh,
restituita alla sua stagione di fiori, intempestiva,
alle sue braccia aperte, cariche di profumi, di bocci, ancora
verdi a metà, gialli a metà, con sfumature di rosso,
si è sovrapposta, non potevamo sin qui sapere fino a che punto,
75     come un’icona non melanconica, vitale anzi, allegra,
      Dell’eleganza che è delle cose vive, appassionate, cariche
di un io da spargere intorno come frutta, polline,
bei tempo e ora felice, a qualunque donna, a ragazze
dai capelli di tutte le sfumature di biondo, di castano,
80  di bruno, e persino di rosso, di grigio,
se gli occhi che ci stanno sotto, com’è necessario, sono in tinta, vivi,
fin quando è possibile.
Riprendere la strada di casa, a sette, otto ore
dalle persiane chiuse chissà da quanto tempo, dal giardino un poco stinto,
85  dall’acqua rossa che colerebbe dai rubinetti, dall’odore di stantio
che ha bisogno di un giorno o due di vento,
di serate salmastre, di laghi, laghi e fiumi, di stelle:
no, non è possibile, ora. È il mare,
le nostre origini, la nostra storia, non quella scritta sui libri,
90  a richiamarci: e non sarà l'ultima cosa che faremo.
Più lontano, non il mare vicino, troppo: velocemente
si attraversa il saliente orientale, a ritroso,
carico per decenni di artiglieria, di carri armati, di uomini
della Difesa Vicina, del Presidio Opere, di casematte,
95  missili e bombe, per fortuna non utilizzate,
almeno sin qui, nel corso della nostra vita,
e si scende verso sud, dall’altro lato però del golfo,
su strade che hanno poco dell’autostrada, strette trafficate pericolose
e bellissime, nel loro abbandono. Non è l’asfalto,
100 è il paesaggio, di roccia e mare, di terra e costa,
che lasciamo dietro di noi come un sogno, una scia
intervallata da soste. Prima ad accoglierci,
in prossimità del tramonto, fu Jurievo, dal mare scintillante:
nel porto, piccolo, riparato, adatto a barche da pesca a vela,
105 profondo, ricci e cetrioli di mare, a centinaia, nell’ultima luce
del giorno, nell’acqua, trasparente come un immenso acquario.
Il caos è grande, a cena, nell’unica taverna aperta,
dove su panche e tavoli da osteria ci ammucchiamo
gli uni sugli altri con indigeni festosissimi e parlantissimi,
110 senza che noi li capiamo, senza che ci capiscano,
ma cordiali anche per quello, grazie al vino, alla birra o alla Slivòviz
(o a tutti insieme). La notte è placida anche per noi, di conseguenza;
poi la mattina riprendiamo, fra rocce rosse e gialle, tagliate
crudelmente dalla strada, con giravolte, discese
115 e brusche salite, su ponti e laghi, o in vista del mare.
Ci riportano contro voglia verso l’interno. In qualche punto
l’infiltrazione d'acqua della montagna ha fatto rovinare a basso
la corsia esterna della strada, che si restringe,
diviene sentiero, ponte periglioso
120 di bande metalliche attraversate sul vacuo, per poi allargarsi
su palafitte che sovrastano bassi fondali. I riposi
sono a base di conchiglie piuttosto strane, o di pesci bruciati sulla griglia,
o di ottima carne, con memoria di un DNA austro-ungarico (si sa, gli Slavi
da quella parte non hanno mai avuto uno status, non diciamo una monarchia,
125 paragonabile alle due componenti primarie dell’aquila bicipite:
malissimo, così nascono le guerre). Rijeka, Split, Dubrovnik
sono alle nostre spalle: via per il Montenegro, il Kosovo,
dove l’ospitalità è per così dire spartana. Ma, dopo cena,
quando ci rintaniamo nelle camere, per dormire, e riposare le nostre ossa,
130 ammaccate dalla strada del giorno, a notte fatta, un canto
si leva, di soli uomini, dall’osteria
dove mezz’ora prima stavamo cenando: non per noi, per loro
cantano, un canto straordinario, antico
e tristissimo, da mettere i brividi. In cielo, si è levata la luna.
135 Se siamo qui, è solo per essere testimoni: di fronte a loro,
      ci sentiamo poveri, com’è giusto. Non parliamo, ci tiriamo le lenzuola sugli occhi.
 
 
 
22.
 
 
Ci addormentammo in mare, purtroppo, che era sereno, liscio,
inducendoci in tentazione, in una sorta di trance
che rende impossibile qualunque racconto, come necessario,
di una traversata, anche se con auto al seguito
5    (di scorta, come si ricorderà, nella speranza
che prima o poi la nostra, incidentata, ce la restituiscano):
ma ci ha risparmiato, per compensazione, l’incubo
che ci sorprese una volta in Portogallo, di notte,
quando sull’oceano color inchiostro, sotto un cielo senza stelle,
10   in una nebbia sottile che emergeva dalle acque,
come il Vascello Fantasma, a duecento metri dalla riva,
vedemmo emergere una nave gigantesca che se ne andava all’inferno,
probabilmente, con tutto il suo carico, uomini compresi,
e ci fece venire i brividi, soltanto a guardarla dalla costa.
15   Perché di notte, in mare, è cosa nota, non si vede niente,
ed è una triste necessità, quella di ritornare
in una situazione primitiva, avanti l’invenzione del fuoco,
strizzati fra cielo ed acqua, con o senza le stelle.
Grati come in punto di morte dell’incoscienza
20   che ci permise un transito senza sogni, ne visioni
orrifiche, e sia pure a danno dell’esperienza,
scendemmo in Puglia sani e salvi, pronti al sacrifìcio di una capra.
Qui, così vicino a casa, il mare è verde, ci si creda
oppure no, non a causa dell’inquinamento,
25   che pure ci sarà: ma ci siamo cresciuti in mezzo,
almeno la nostra generazione,
perché cos’era quella sabbia nerastra che ci si attaccava fra le dita dei piedi,
e ci divertiva tanto, da bambini, e quei pozzetti di bitume
che mettevamo coi pesci ago nel secchio, certi di far loro un piacere
30   addobbando un acquario portatile, assieme a un ciuffo d’alghe,
che fossero di riparo nelle ore più calde
in un’acqua che per disgrazia andava sempre in ebollizione?
Mare verde al largo degli scogli, al massimo su due tonalità di colore,
e in alto il cielo, dal bianco al celeste slavato:
35   e l’odore del salmastro, forte, a giustificazione delle saline
e dei porti, coi moli e i gradini nerastri: non un mare domestico, cittadino,
nonostante i fondali bassi, anzi, al contrario, un brodo
primordiale, origine di vita, e per questo inquietante.
Da queste parti è Canne, se la topografia dice ancora qualcosa
40   là dove fra poco Alessandro e Cesare saranno nomi esotici,
o puri nomi, appunto, a dispetto del sangue
che si è tutto asciugato, da secoli,
fermentando il terreno, come dicono le antiche storie,
e che a noi che ancora ricordiamo, per poco,
45   dà un brivido, su sconfìtti e vincitori,
di cui non sappiamo più le ragioni, passeggiando a piedi
per il campo, per i suoi dislivelli, per l’erba fitta,
salvo le ragioni generali della vita e della morte, così uguali alle nostre.
Non è la fine della storia, e neanche delle storie,
50   ma solo un intervallo, un momento di afasia
il cui significato trascende comunque la nostra vita,
e dunque si fa storia, malvolentieri, come sempre.
Noi risaliamo l’Italia, sotto il cielo sereno
e nel caldo, colli aridi si levano dalla pianura
55   come nel deserto. Silenzio, solo il rumore del vento,
che muove mulinelli, groppi d’erbe spinose;
è l’Italia, questa, che battono gli incendi
e le frane dilavano. Non è la storia che va in pezzi,
siamo noi, in cerca di nuove verginità, come se la terra
60   fosse antica dappertutto, ferita dai calanchi
(nome un tempo quasi sconosciuto) come da rughe
inguaribili; un deserto di polvere, di creta
gialla e bianca che mette a nudo le pietre, in altra forma
indifferente: ai nostri occhi che guardano, alle nostre ombre
65   che non lasciano traccia. Non è un’esperienza di purificazione;
le città, dato il contesto, sono una via di fuga.
Attraverso la desolazione d’Italia
giungemmo a Napoli, finalmente,
dove ci colse la notte. Le finestre erano aperte, nei palazzi umbertini,
70   sulla stagione ancora calda, da quelle parti, .
sulla macchia lattiginosa del cielo, con tracce di nuvole
su cui si concentrava il riflesso delle luci delle case, dei viali, le lampade
accanto al mare, i fari
delle automobili. L’aria
75   era tiepida e ferma, una vastità infinita entrava dalle imposte,
      nel ricordo di Roma: come in un pianeta gemello
con altre pianure, altri luoghi, una diversa dimensione
a duecento chilometri di distanza, modulazione
di una stagione unica, di uno stesso paese,
80  varietà di declinazioni di uno stato d’animo. Fare l’amore
non è blasfemo, in questi casi: un rito,
antico, si celebra sotto la volta delle stelle.
In un universo così mobile, così soggetto
alla mutazione, al cambiamento, un esagramma cinese
85  ci fornisce di un tetto, di una dimora, di un nostro luogo: la stasi,
per un attimo, un centro di riferimento. È bella
la prima luce dell’alba, nel dormiveglia, dopo la notte,
in due. Secchiate di chiarore si versano
sul cielo notturno, che lentamente si apre, si colora
90  del nuovo giorno. Anche se non canta l’allodola,
che ama i campi di grano, e la buona stagione, e meno i pesticidi,
è il movimento che ricomincia. S’impone un altro rito, quello del bagno,
e in due, si sa, è più difficile. Il ricordo,
per distratto, estenuato che sia, funge da volano, spero,
95  fino alla prossima volta, al nuovo incontro con noi stessi.
Perché la vita, e non il cuore solamente, è fatta di intermittenze.
Come la parola, come il viaggio, come la poesia.
Il rito stesso, a pensar bene, se ha un senso, è fatto di intermittenze:
non sappiamo, noi, altro modo,
100 di commutare il passato e il presente (quanto al futuro,
lasciamolo dietro la porta, in attesa: non c’è fretta, non c’è bisogno

di scongiurarlo, perché si decida a entrare, a invadere la stanza).

 

da Guido Baldassarri, Viaggio in autostrada, Caltanissetta-Roma: Salvatore Sciscia, 2005

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